Giro DiVino

La gravità dello champagne

Giovanni Battistuzzi

Prima tappa: cronometro a Budapest. La storia alcolica di István Liszkay, il campione ungherese che alla storia preferì le bollicine

Da leggere bevendo un Merlot Barrique della cantina Liszkay (Monoszló, Ungheria) 

 


 

Era un bel ragazzo István Liszkay, con una zazzera sempre ben curata di brillantina, pettinata un po’ all’indietro con la riga sulla sinistra. E quando entrava in un velodromo sul suo sorriso guascone si posavano gli sguardi compiaciuti di tutte le donne sedute sugli spalti del velodromo Millenáris. E che sguardi gli mandavano quando si arrampicava sulle paraboliche per trovare la gravità giusta per beffare tutti gli altri sulla linea del traguardo. 

 

István Liszkay era nato a poche centinaia di metri dal Millenáris e al Millenáris aveva iniziato ad entrarci non appena aveva messo il sedere sulla sua prima bicicletta. Aveva sette anni e quel ferro vecchio con due ruote il suo vecchio l’aveva trovato tutto mezzo arrugginito in una cantina di un ricco signore di Pest. Nessuno si oppose alla sua richiesta di prenderlo. István ci fu messo sopra per necessità, ché mica potevano andare avanti così con quel tormento di ragazzino che correva ovunque, anche tra le gambe dei clienti della bottega di alimentari che dava da mangiare a tutta la famiglia. István ogni giorno lo spedivano da zio Ferencz, il custode del velodromo. E poco importa che zio non lo fosse sebbene portasse lo stesso cognome, mica c’era un problema di congiunti allora, l’importante è che lo facesse girare in pista e lo stancasse al punto giusto per non farlo dannare a casa.

 

Girando e girando István capì che ciò che voleva fare era pedalare. Nel 1930, a diciott’anni, aveva già compiuto diversi giri del mondo in quell’ovale e altri ne aveva scoperti nel paese, molti li aveva conquistati. Gare di velocità o di resistenza era uguale. Pochi ce ne erano che andavano forti quanto lui. E dopo ogni vittoria, l’appuntamento era da László, l’osteriola che stava da sempre nel piazzale antistante il Millenáris. 

 

E mica solo su pista andava forte István Liszkay. Ne sa qualcosa Guglielmo Segato, oro olimpico nella corsa a squadre ai Giochi olimpici di Los Angeles 1932. L’ungherese se lo ritrovò rivale nel Giro d’Ungheria del 1931 (si corse dal 4 all’8 settembre) e “arduo era tenergli la ruota quando aumentava il ritmo. Lo faceva a poco a poco ma inesorabilmente che sembrava una motocicletta”, disse alla Domenica sportiva il corridore veneto al rientro in Italia. Quel Giro d’Ungheria Liszkay lo vinse così facilmente che Il Littoriale, un po’ per assolvere i nostri, scriverà che “si è presentato al firmamento del ciclismo ungherese un astro nascente che diventerà di prima grandezza”.

 

Le imprese di István raggiunsero anche Parigi. Nel novembre del 1931 venne invitato per una serie di riunioni su pista al Vélodrome d’Hiver. E l’ungherese durante le prime corse stupì tutti, battendo nell’inseguimento, nell’ordine, André Godinat, Jef Demuysere e Charles Pélissier, che solo pochi mesi prima aveva vinto cinque tappe al Tour de France. Nella seconda giornata doveva giocarsi la vittoria finale con il grande Jef Scherens. Mai si presentò però al velodromo. A fregarlo fu la conoscenza di Matilde e, soprattutto, la scoperta dello champagne. Lui abituato al rosso forte delle colline di Budapest, si inebriò a tal punto delle bollicine e del profumo della giovane che si dimenticò della corsa. Quando gli organizzatori lo trovarono nell’hotel a fianco completamente ubriaco e con in testa le calze della giovane lo caricarono in spalla, lo passarono sotto l’acqua gelida delle docce del Vel d’Hiv e lo misero in qualche modo in sella. Non completò nemmeno un giro. Cadde malamente e venne portato fuori in barella. Non rimise più piede al Vélodrome d’Hiver. 

  


 

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