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Lo spazio del ciclismo al tempo dell'UAE Tour sospeso per coronavirus

Giovanni Battistuzzi

La decisione degli organizzatori della corsa degli Emirati arabi di interrompere la gara a tappe e quella consapevolezza che ancora non sbiadisce di cosa ha attraversato questo sport

L'UAE Tour, la corsa a tappe che si è iniziata a correre il 23 febbraio negli Emirati Arabi Uniti, è stato sospeso. Le ultime due tappe non saranno corse, la vittoria finale è stata assegnata ad Adam Yates, capoclassifica al momento che il coronavirus si è materializzato in gruppo. Due presunte positività al Covid-19, squadre bloccate negli hotel, accertamenti medici per tutti. L'UAE Tour finisce così, tutto è stato isolato, il tempo sospeso. E ogni cosa ora verrà messa in discussione. Potrebbe accadere quello che solo la guerra – e non ovunque – è riuscita a fare: tenere le biciclette ferme, annullare (o forse rimandare, sì ma quando?) le corse, giovani o secolari non importa. La Strade Bianche potrebbe essere congelata, la Milano-Sanremo pure. Il resto chissà. Servirà aspettare.

 

Tutelare la salute delle persone è qualcosa di sacrosanto, una necessità superiore nei confronti della quale ogni altra cosa diventa sacrificabile. E cosa c'è di più sacrificabile dello sport, ossia la cosa meno necessaria tra le cose che, almeno in parte, consideriamo dilettevoli? La direzione corsa ha preso una decisione nell'interesse di tutti. Di atleti e personale tecnico, della popolazione locale e di chi ha deciso (per la verità molto pochi) di recarsi negli Emirati per vedere le tappe. D'altra parte una corsa in bicicletta non può essere corsa a stadio o palazzetto chiuso. Una gara è prossimità, vicinanza, quotidianità. Percorre le strade, attraversa panorami comuni, irrompe in luoghi che vivono ogni giorno di un destino proprio. Non c'è stasi, tutto è dinamica e dinamismo.

 

Eppure in tutto questo qualcosa stride con ciò che il ciclismo è stato, con cosa questo sport ha rappresentato, forse suo malgrado, in altre epoche. Forse un passato che si è stinto, che ha perso forma e sostanza, talmente antico da essersi ormai completamente sbiadito. Ma in ogni caso, difficile da eliminare del tutto dalla memoria.

 

Perché il ciclismo, nella sua storia, è sempre stato mosso da una disperata speranza, da una volontà, a volte quasi folle, di essere motore di un ritorno alla normalità dopo epoche angosciose. La bicicletta è stato il mezzo d'uscita di due guerre, il vitale fregarsene, pedalare e ripartire dopo l'epidemia di influenza spagnola, aviaria e suina. È fuggita da tutto, la bicicletta, perché il pedalare vuol dire appropriarsi dello spazio, gestirlo a propria immagine e a proprio piacimento; perché il pedalare è fatica a volte dolore, ma nel pedalare la fatica e a volte il dolore non coincidono mai con la disperazione, sono il necessario sacrificio verso una bellezza superiore.

 

Così è sempre stato, ci si augura non possa essere ora il coronavirus a cambiare le cose.

 


 

Cosa sta accadendo all'UAE Tour

(seguite gli aggiornamenti di Stefano Rizzato)

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