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Il tempo sospeso del ciclismo alle prese con il coronavirus all'UAE Tour

Giovanni Battistuzzi

L'allarme per due casi sospetti all'UAE Tour, l'annullamento della corsa, la psicosi da contagio. Stefano Rizzato, giornalista di Rai Sport, racconta cosa è successo ad Abu Dhabi

Il tempo è un concetto sfuggente, che mal si presta alla quantificazione. Eppure è una lancetta che scorre su di un quadrante. Il suo però è uno scorrere che può dilatarsi o contrarsi a seconda delle situazioni. Corre o sembra non passare, galoppa o sembra arrestarsi. Le ore mutano di consistenza e di dimensione, i minuti possono sembrare montagne insormontabili, specie in bicicletta, specie mentre si muovono i pedali lungo una salita. I ciclisti vivono in una dimensione temporale tutta loro, dove le ore fuggono tra vento, vortici di ruote e paesaggi, e i secondi valgono, contestualizzano, discriminano: si corre a lungo che quasi non ci si accorge di quanto scorrono i minuti, eppure sono questi ultimi a contare. Le giornate sono fatte di uscite sui pedali, massaggi, colazioni, pranzi e cene caloricamente dosate, riposi e sonni, energie che spariscono e che si accumulano. Assomigliano a liturgie, un messale che non muta, qualcosa di normale. Laurent Fignon lo chiamò, amorevolmente, “il patto di reclusione del ciclista”, una reclusione però volontaria, un arresto cercato, la migliore prigionia possibile. Ci si accorge di tutto ciò soltanto quando un evento inatteso entra nella vita normale senza nemmeno bussare, invadendo tutto, sconvolgendo ogni cosa. 

 

È quello che è successo giovedì scorso ad Abu Dhabi a tutti coloro erano al seguito dell’UAE Tour – che si stava correndo negli Emirati Arabi Uniti –, quando il fantasma del coronavirus si è materializzato in gruppo. Due casi sospetti, due positività prima date per certe e poi rientrate, la paura del contagio, la corsa sospesa e poi annullata, l’isolamento in stanza. Venti squadre (oltre a giornalisti e il consueto seguito dell’organizzazione) bloccati all’interno di due hotel adiacenti in un tempo sospeso, dove la quotidianità si è trasformata improvvisamente in un miraggio. Per molti tutto ciò è finito. Per alcuni, quattro squadre (Groupama-FDJ, Cofidis, Gazprom-RusVelo e UAE Team Emirates, in isolamento volontario) sta continuando.

 

Stefano Rizzato, giornalista di Rai Sport, era lì in uno dei due alberghi (assieme a Marco Bonarrigo del Corriere, Riccardo Crivelli della Gazzetta e dell'ex pro Alan Marangoni di Global Cycling Network, almeno per quanto riguarda i giornalisti italiani), dentro quella stessa realtà sospesa, in una situazione dove la psicosi da contagio aveva iniziato ad avvolgere tutto. “Un tempo nel quale io mi sono mosso come spesso accade durante il mio lavoro di reporter, con il peso però di dover essere io stesso una fonte di informazioni per me, per chi mi stava vicino e, inoltre, per il pubblico”, spiega Rizzato al Foglio.

 

“Se io non mi sono nemmeno reso conto dell’isolamento, delle problematiche legate alle limitazioni di movimento, ben diverso è stato per i corridori. Erano lì ad aspettare una notizia, un via libera, la possibilità di quello che fanno sempre, cioè muoversi, pedalare, correre. C’è chi era venuto qui per fare bene, per vincere una tappa, ma c’erano soprattutto atleti con in programma traguardi più importanti, che avrebbero sfruttato la corsa per migliorare la loro condizione fisica per le prossime grandi gare. E trovarsi in un limbo del genere, senza una certezza su quando sarebbe finito tutto ciò ha aumentato ansia, insicurezza, a volte frustrazione. E tutto questo aumentava lo stato di incertezza, che poi è la base della psicosi”.

 

A colpire è stata la mancanza totale di trasparenza”, spiega Rizzato. “Un problema ancor maggiore in quanto in gioco c’era la nostra salute, la salute di tutti, dai corridori a chi c’era nell’albergo. Siamo rimasti in attesa dei risultati dei test per ore, per giorni. Quando domenica abbiamo avuto la possibilità di stare nei luoghi comuni l’abbiamo fatto all’oscuro di tutto, della situazione nostra e di quella degli altri”.

 

È nella notte di giovedì 27 febbraio che tutto ciò che era stato sino a quel momento, muta, cambia, si trasforma in un mondo fuori dal mondo. “Dopo la quinta tappa, la seconda con arrivo in salita a Jebel Hafeet, assieme al collega Raffaele Iannibello, operatore della sede Rai di Milano, siamo arrivati ad Abu Dhabi. Siamo stati tra gli ultimi a entrare nell’hotel che per ironia della sorte si chiama Crowne Plaza”.

 

 

“Erano più o meno le 22,30 ora locale – continua –, eravamo a cena, quando una persona dell’organizzazione ci ha detto di non uscire dall’albergo e di attenerci alle direttive arrivate via mail. Lì era chiaro che c’era un problema, toccava solo capire se questo veniva da fuori o se eravamo noi”.

 

Il problema non era fuori dall’hotel, veniva da dentro. Due presunti casi di coronavirus, abbastanza, almeno per il comitato organizzatore per decidere che l’UAE Tour finiva lì: le ultime due tappe non si sarebbero corse, la vittoria veniva assegnata ad Adam Yates, capoclassifica al momento. 

 

 

“Una gestione confusa da parte delle autorità locali. Prima è arrivato il divieto d’uscita dall’albergo, poi l’obbligo di rimanere nelle camere e di effettuare un tampone per il coronavirus. Una comunicazione arrivata solo l’indomani nella tarda mattinata, dopo la colazione che avevamo fatto tutti assieme, anche con gli altri ospiti della struttura”, sottolinea Rizzato.

 


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Venerdì i test per le oltre seicento persone al seguito della corsa (617 il numero esatto fornito dall’organizzazione). Gli esiti degli esami, assicuravano le autorità locali, sarebbero dovuti essere resi noti dopo 9/12 ore. Non è andata così. “Sabato eravamo ancora convinti di poter partire con i voli previsti per la domenica, bastava presentare l’esito negativo del test. Gli ospiti infatti sono stati fatti uscire in serata sia dal nostro hotel sia da quello delle squadre. Il problema è stata la modalità della loro uscita: era stato dato loro un foglio in arabo da firmare, si trattava di un documento nel quale autocertificavano di essere negativi al coronavirus. La cosa strana era che al momento né i giornalisti né le squadre avevano ancora ricevuto gli esiti del test. Se ci fosse stato davvero un positivo tra noi, quelle persone, che con noi avevano mangiato e condiviso gli stessi spazi, potevano essere dei potenziali contagiati. Sarebbe stata una violazione delle linee guida dell’Oms”.

 

Sabato sera un nuovo colpo di scena. “Quattro ambulanze a sirene spiegate raggiungono l’hotel delle squadre. Tre persone vengono portate via, ripiombiamo nell’incertezza, nonostante un avviso che ci preannuncia la partenza per l’indomani”.

  

 

“Quando ci rechiamo nella hall però le porte sono chiuse: le autorità per farci uscire pretendono il certificato di non negatività, certificato che nessuno però aveva in quanto non ci era ancora stato dato”. A partire invece sono quindici squadre su venti. “Oltre a Groupama-FDJ, Cofidis, Gazprom-RusVelo e UAE Team Emirates, in isolamento volontario, che sono ancora in isolamento, c’era pure la NTT Pro cycling, quest’ultima fatta partire lunedì mattina, assieme a una parte dei membri della direzione e dei media. Gli altri vengono scaglionati tra ieri e oggi”.

  

Una situazione che si è evoluta in assenza di comunicazioni ufficiali dell’Union Cycliste Internationale (UCI) e delle ambasciate dei vari paesi dei corridori, “a eccezione di quella italiana”, sottolinea Rizzato. “Il nostro ambasciatore negli Emirati Arabi Uniti, Nicola Lener, domenica pomeriggio è venuto a sincerarsi della nostra condizione e ci ha annunciato che la situazione si sarebbe sbloccata a breve, cosa che è accaduta, sebbene ci siano ancora nostri connazionali nelle squadre bloccate ad Abu Dhabi”.

  

  

Quattro giorni davanti a un panorama immobile, in un albergo di lusso con tv, servizio in camera e wi-fi, certamente, ma pur sempre costretti in uno spazio distante dalla quotidianità, nell’attesa di qualcosa che non arrivava.

 

“È un luogo incantevole. Panorami ridenti. Andiamocene”. “Non si può”. “Perché?” chiedeva Estragone. “Aspettiamo Godot”, rispondeva Vladimiro. 

 

Come nell’opera di Samuel Beckett Godot non è mai arrivato. Il certificato di negatività nessuno l’ha mai ricevuto. C’era una lista di idonei a lasciare l’albergo, quella sì, ma un foglio di carta non è mai arrivato. E così Estragone e Vladimiro questa volta se ne sono andati davvero. Hanno salutato la psicosi da coronavirus che ha raggiunto e abbracciato il ciclismo ad Abu Dhabi.