Strade bianche e vino rosso. L'Eroica in un bicchiere di Chianti

Non di sole pedalate è fatto il ciclismo. Perché “il bello della bicicletta è che ti mette sete e appetito e ti fa scoprire nuove tavole sulle quali soddisfarlo”, diceva Guareschi. L'altra faccia della ciclostorica che parte e arriva a Gaiole

Giovanni Battistuzzi

Per lui che il ciclismo non era altro che un buon vino, perché “ci vuol tempo per riuscire nell'ardua impresa di conoscere un bicchiere nelle essenze, nei gusti, nelle note musicali che vi sono nascoste all'interno dello spartito, ed è atto adulto comprenderne la complessità e l'eccezionalità”. Per lui che “chi non beve vino ha qualcosa da nascondere”, soprattutto se ciclista. Per lui che “Alfredo Martini e Toni Bevilacqua a discutere animatamente a fine tappa” (al Giro d'Italia del 1949) era “un cortocircuito liquido”: vermouth contro acquasanta. Per lui che chissà cosa avrebbe detto di Pinot (Thibaut), Barbero (Sergio), Bianchetto (Sergio) o Vigna (Marino). Per lui che apprezzava Dante Rivola, che fu gregario di Bartali e buon corridore (un Trofeo Matteotti, un Giro del Lazio e un Giro del Piave), ma soprattutto che si portava sempre un borraccino di Albana, il vino delle sue terre (Imola), “per darmi morale quando l'arrivo è ancora distante e le gambe sono belle che andate”. Per lui che ai corridori voleva bene perché “non assomigliano affatto agli eroi di quei romanzi i quali, per centinaia di pagine, non si mettono mai a tavola”. Perché per lui, per Orio Vergani, i ciclisti avevano l'appetito “dei 20 anni, appetito da recluta, appetito da bracciante, appetito da muratore”.

 

Appetito e sete. Perché di questo ha bisogno un ciclista: “Fame di vittoria e sete di successo”, almeno per l'Avocatt Eberardo Pavesi. Perché questo fa pedalare il ciclista: “Cibo per le energie, acqua per non disidratarsi”, almeno per Biagio Cavanna. “E vino rosso per rinfrancarsi il morale”, almeno per Gino Bartali. Perché prima che arrivassero i preparatori, i nutrizionisti, le diete calibrate al grammo, il monachesimo alimentare e via dicendo, c'era un universo a pedali che andava avanti forse non a pane e acqua, ma sicuramente a pane bistecche vino rosso e qualche ricostituente.

 

Sembrano storie di secoli fa, così lontane dal mondo della magrezza estrema dei corridori di oggi, del fisico scheletrico dei ciclisti che siamo abituati a vedere in corsa. Eppure ancora negli anni Sessanta e Settanta si aggiravano in gruppo eretici della dieta, corridori capace di correre forte in bicicletta, di vincere e conquistare Classiche e grandi Giri, non rinunciando (o quasi) a nessun piacere della tavola. Insomma, seguendo appieno quello che Giovannino Guareschi aveva colto: “Il bello della bicicletta? Ti mette sete e appetito e ti fa scoprire nuove tavole sulle quali soddisfarlo”.

 

Memorie di un ciclismo che non c'è più, che molto spesso vengono dimenticate non solo dai professionisti, ma anche dagli amatori che al salame preferiscono le barrette o i gel e al vino l'acqua al sapor di maltodestrine. E questo forse per colpa di una certa volontà di imitazione, forse per un'attenzione totalizzante al benessere fisico, forse perché ormai si è portati a pensare che insaccati e vino siano i veri acerrimi nemici della salute.

 

Memorie di un ciclismo che non c'è più, ma che riprendono vita ogni anno all'Eroica. Perché non solo di pedalate è fatta la ciclostorica che parte e arriva a Gaiole in Chianti, c'è dell'altro. E questo altro è un miscuglio di tranquillità in bicicletta in scenari sospesi nel tempo e di mangiate e bevute e chiacchiere in compagnia. In fondo non è altro che questo il bello del pedalare: godersi appieno i luoghi che le due ruote attraversano. E per godersi appieno un luogo gli occhi non bastano, serve anche soddisfare papille e stomaco.

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