La Parigi-Tours e il ciclismo che gioca contro i velocisti

Ieri la gran vittoria di Jelle Wallays sui “nuovi” sterrati della classica francese di fine stagione. I lamenti di Démare e il tributo che dobbiamo agli sprinter

Giovanni Battistuzzi

Ieri, a qualche de ina di metri dallo striscione di arrivo di avenue de Grammont, Arnaud Démare ha abbassato il capo: un segno di resa. Quando ha rialzato la testa i suoi occhi erano velati di malinconia, mentre nelle sue labbra era comparso un ghigno di disappunto. Il disappunto di chi si era immaginato un finale diverso e che aveva visto i propri buoni propositi cadere al suolo come foglie d'autunno.

 


Foto LaPresse


  

La Parigi-Tours era da poco terminata quando il velocista francese si è lasciato trascinare dall'insoddisfazione ai microfoni dell'Equipe: “Peccato. E non tanto per la gara, non sempre va come dovrebbe andare. Peccato perché si è andata a disfare la storia. Ora bisogna crearne una nuova su questo percorso che non è più quello vera Parigi-Tours. Purtroppo oggi la corsa dipende troppo dai problemi meccanici. Può piacere o meno, ma è così. È forse migliorato lo spettacolo televisivo e dobbiamo accettare il cambiamento. Io però non posso dimenticare quello che sono, un velocista. Ed è un'altra la Parigi-Tours che desidero e mi è sempre piaciuta”.

 

Démare è un velocista tenace, uno che sa trovare la velocità giusta per battere gli avversari anche al termine di corse che superano i duecento/duecentocinquanta chilometri. È soprattutto uno che raramente si presta ai piagnistei: per lui il ciclismo è “cosa da duri” e quindi “è inutile lamentarsi se le cose non filano”, perché “incolpare il fato o gli errori altrui è solo un modo per non ammettere di non aver dato il massimo”. Il francese però ogni tanto si lascia andare anche lui alle lamentanze. E così ieri ha sbuffato contro il fato, contro l'organizzazione, contro chi,  a suo dire, ha “rovinato una corsa perfetta”. Ce l'aveva contro la novità introdotta nella scorsa edizione, il passaggio tra i Chemins de vigne, quel manipolo di strade sterrate che corrono in mezzo ai filari di Chenin blanc, tra gli acini che sono la base per il Vouvray, il vino più pregiato della zona, quello su cui l'agenzia di promozione del territorio della Tours Métropole Val de Loire, ha deciso negli ultimi anni di puntare parecchio. Perché, ha detto il presidente Philippe Briand, “il turismo chiede natura ed enogastronomia. E la crescita del cicloturismo nella zona impone investimenti per far conoscere il meglio della nostra produzione. E tra il meglio della nostra produzione c'è proprio il vino”.

 

Se il turismo cambia, se il cicloturismo diventa una componente ormai non più trascurabile dell'economia locale ecco che la Parigi-Tours non può farsi sfuggire tutto questo. D'altra parte nel 1896 questa corsa era nata per celebrare il nuovo velodromo di Tours, per sancire la vicinanza tra le colline della Loira e i bicchieri parigini, sopratutto per diventare la grande corsa generazionale. Un'edizione ogni cinque anni, l'occasione per mettere di fronte il meglio che il ciclismo poteva offrire in un evento unico, una sfida epocale. Durò un decennio l'esperimento, la prima edizione aperta solo ai dilettanti, la seconda anche ai professionisti, poi dal 1906 la si iniziò a disputare ogni anno: “La corsa lo merita”, sottolineò Victor Lefèvre, direttore del velodromo di Tours, nonché grande amico di Henri Desgrange, il creatore della Grande Boucle che si impossessò della corsa che venne creata dal quotidiano Paris-Vélo. Oltre trecento chilometri di pura velocità, da Parigi verso il sud come nessun altra. Perché le gare, quelle importanti, partivano tutte da Parigi, culla del ciclismo tricolore. Perché le gare, quelle importanti, salivano tutte verso quel nord incubatore di leggende a pedali.

 

Oltre trecento chilometri di pura velocità nella pianura francese, quella che pianura non lo è mai davvero. Una classica per velocisti anche se non sempre i velocisti sono riusciti a conquistarla. Una corsa che “è una sfida al vento”, sintetizzò Desgrange perché lì dove le difficoltà altimetriche erano quasi nulle era il vento che dal mare risaliva la valle della Loria a creare strappi e muri. Una corsa divenuta classica ma che ha sempre dovuto fare i conti con la modernità, che ha provato un numero spropositato di volte a modernizzarsi per non sparire. Prima inserendo collinette nel suo percorso, poi vietando i deragliatori (accadde nel 1965 e nel 1966), in seguito invertendo arrivo e partenza, dalla Loira ai sobborghi di Parigi, addirittura portando lo striscione d'arrivo davanti ai cancelli della reggia di Versailles.

 

La Parigi-Tours ha cambiato faccia più volte, ha assecondato gusti e usanze di epoche diverse, ha abiurato molto spesso le sue origini. Eppure questa corsa è ciclicamente riuscita a essere riconquistata da chi l'ha sempre sentita come un personale territorio di conquista. I velocisti d'altra parte sono una tipologia di ciclisti cocciuta, continuamente avversata da tifosi e organizzatori che non li amano a sufficienza, incapace però di darla a loro vinta. È da quando esiste il ciclismo che chi fa della volata la propria specialità è continuamente messo in difficoltà da novità altimetriche, da strappi sempre più duri, messe lì con l'unico scopo di far staccare gli sprinter. Eppure i velocisti non si sono estinti, resistono, continuano vincere. Magari si sono evoluti, ma non sono cambiati: vivono per la velocità, per quelle ultime centinaia di metri da fare a tutta.

 

Gli sterrati dei Chemins de vigne si sono messi in mezzo alle loro ambizioni, hanno regalato due edizioni spettacolari della Parigi-Tours, hanno forse cambiato la faccia alla corsa, ma non riusciranno alla lunga a eliminare le legittime ambizioni di caos a pedali dei velocisti. Nei cinquanta chilometri alla ricerca della gloria di Jelle Wallays c'era la voglia di libertà del ciclismo che piace a tutti. Nella dannata volontà di affossare quella ricerca della squadra di Arnaud Démare, c'era l'altra faccia di questa voglia di libertà, quella del desiderio di ristabilire l'ordine, quella senza la quale una fuga, un tentativo disperato, ci sembrerebbe meno bello.