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È guerra del gender in Scozia. E adesso attenti a dire che i sessi sono due

Marina Terragni

Da lunedì nel paese è in vigore lo Scottish Hate Crime Act: promette di surriscaldare il dibattito su una materia che già in passato è stata divisiva

Settanta mila sterline: è il generoso contributo di J.K. Rowling alle attiviste di For Women Scotland impegnate in una battaglia che la scrittrice più famosa al mondo definisce “storica”: quella sulla definizione legale di “donna”, ormai il virgolettato è d’obbligo. Il ricorso alla Corte suprema costerà 150 mila sterline ed è totalmente autofinanziato con crowdfunding.  La giustizia scozzese si è già espressa più volte sulla questione “chi può essere chiamata donna?” con esiti incerti e contraddittori. L’ultimo pronunciamento è stato una mazzata per For Women Scotland: il significato di “sesso”, secondo la giudice Lady Haldane “non si limita al sesso biologico o alla nascita ma include coloro che sono in possesso di un Grc” (Gender Recognition Certificate), ovvero di una sentenza che attesti il cambio all’anagrafe. Il Gender Recognition Act (Gra) è una legge molto simile alla nostra legge 164 in vigore dal 1982, dunque ben antecedente alla norma inglese che è del 2004: in entrambi i casi la procedura è piuttosto rigorosa, per ottenere l’ok del tribunale servono perizie mediche e psicologiche oltre a interventi farmacologici e chirurgici. Ma successive sentenze hanno progressivamente facilitato il percorso in direzione del self-id, cioè dell’autocertificazione di genere come semplice atto amministrativo. 

 

La Scozia spinge molto in questa direzione. L’anno scorso l’allora premier Nicola Sturgeon aveva azzardato un deciso passo avanti – o indietro: punti di vista – approvando una legge che riformava il Gra consentendo il libero self-id a partire dai 16 anni. Ma il governo Sunak aveva prontamente bloccato la riforma e alla vigilia di un rovinoso scontro costituzionale con Londra Sturgeon era stata mollata anche dai suoi, per dimettersi poche settimane dopo adducendo ragioni personali. Nel suo discorso di congedo non aveva menzionato la trans-riforma, ma a tutti è stato evidente che il punto di rottura era quello. Peraltro il self-id, come accertato da vari sondaggi, resta inviso alla stragrande maggioranza dei britannici. 

Le attiviste di For Women Scotland spiegano il nuovo ricorso alla Corte suprema dicendo che se chiunque può dirsi donna l’Equality Act – la legge antidiscriminazioni in vigore dal 2010 in gran parte a tutela delle donne, anche con azioni positive – “diventa opaco e impraticabile”. “Chi fornisce spazi e servizi riservati a un solo sesso – dalle case rifugio ai circoli sportivi alle quote in politica fino alle carceri: ci sono stati casi di autori di crimini sessuali detenuti in istituti femminili, ndr – non ha certezze e rischia denunce per discriminazione illegale. E’ necessario fare chiarezza sul fatto che quando si parla di sesso ci si riferisce alla biologia”.  Siamo dunque alla battaglia campale. Il primo aprile infatti dopo una lunga gestazione è entrato in vigore lo Scottish Hate Crime Act, legge contro i crimini d’odio congegnata proprio per colpire chi come Rowling si ostina a profferire assurdità del tipo “a man is a man” o “i sessi sono due”. Gli agenti di polizia sono stati frettolosamente formati sul nuovo psicoreato con un corso online di due ore e manifestano una certa preoccupazione: “Saremo costretti a incriminare tutti”, dice un portavoce del loro sindacato.

 

Stramobilitato contro il ricorso di For Women Scotland il fronte transattivista: principale testimonial la giudice trans Victoria McCloud che da tempo denuncia un “clima tossico” nei confronti delle persone transgender. La giudice ha annunciato che chiederà alla Corte suprema di poter intervenire nella discussione della causa. Se For Women Scotland ottenesse una sentenza favorevole, afferma la portavoce di McCloud, che dato il suo ruolo non può parlare con i media, “ciò significherebbe che le donne come lei – con un certificato di riconoscimento di genere – perderebbero il diritto alla parità di retribuzione con gli uomini, vedrebbero limitati i loro diritti di accesso ai servizi per le donne e sarebbero escluse da spazi come i bagni femminili”. 

 

Il femminismo si divide tra una posizione radicale com’è quella di Women’s Declaration International (Wdi) che vorrebbe l’abolizione tout court del Gra e di ogni legge che consente il cambio anagrafico del genere di nascita, e un approccio più moderato che si limita a chiedere una stretta applicazione delle norme senza concessioni a una libera auto-attribuzione del sesso come quella introdotta un anno fa in Spagna dalla Ley Trans.  L’ipotesi del self-id era stata considerata anche in Italia dal Partito Radicale ai tempi della discussione sulla legge di rettificazione del sesso, norma fortemente richiesta dal Mit (Movimento italiano transessuali) che aveva trovato attento ascolto nella democristiana Maria Pia Garavaglia, convinta della necessità di regolare compassionevolmente una condizione umana così difficile.  Quarant’anni dopo è tutto un altro mondo: ripetute sentenze hanno allentato le maglie della legge 164, la platea trangender si è enormemente estesa e non ha più nulla a che vedere con la piccola popolazione transessuale di allora, quasi esclusivamente MtF. Che fare?

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