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La nuova fase, dopo il 7 ottobre

Decenni a costruire una memoria della Shoah, un giorno solo per tradirla

Giovanni Belardelli

In Italia e all'estero Israele è accusa di stare commettendo un genocidio nella Striscia di Gaza. Non solo l'accusa è falsa, l’uso improprio di quel termine comporta la relativizzazione e banalizzazione dei genocidi veri, a cominciare da quello perpetrato dai nazisti

Nelle ultime settimane, di fronte ai tanti che, in Italia e all’estero, accusano Israele di stare commettendo un genocidio ai danni dei palestinesi, c’è stato chi ha obiettato che un conto è condannare la reazione israeliana al pogrom del 7 ottobre, altra cosa – del tutto sbagliata – è farlo utilizzando il termine “genocidio”. Per poter parlare di “genocidio” – secondo la definizione adottata dalle Nazioni Unite nel 1948 – deve esistere infatti la precisa intenzione di distruggere un determinato gruppo etnico, religioso o nazionale, e non è questo il caso delle azioni compiute da Israele a Gaza. La questione non è meramente nominalistica, perché l’uso improprio di quel termine comporta la relativizzazione e banalizzazione dei genocidi veri, a cominciare dalla Shoah. È tuttavia insufficiente attribuire l’uso improprio della parola “genocidio” soltanto a un errore, dovuto a ignoranza unita magari a faziosità. È possibile infatti, se proprio vogliamo parlare di errore (spesso commesso, peraltro, non solo da studenti universitari ma anche da tanti loro professori), che si tratti  – da parte, se non di tutti, di molti tra quanti lo compiono – di un errore voluto, che ha un preciso obiettivo: proprio quello di relativizzare e banalizzare lo sterminio degli ebrei. Credo in sostanza che non limitarsi alla condanna dell’azione militare israeliana a Gaza ma definirla come un genocidio possa rappresentare un modo per cancellare quella centralità della Shoah che in tanti avevano più subìto che condiviso (si pensi a certe iniziative pro-Palestina che quest’anno hanno cercato di “reindirizzare” il Giorno della memoria).
 

Qualche sondaggio ha documentato in questi anni come – nonostante esista, in Italia e altrove, una data dedicata al ricordo della Shoah –  una cospicua minoranza  della pubblica opinione ritenga che le dimensioni dello sterminio degli ebrei siano state esagerate (o addirittura che un vero sterminio non vi sia stato). In sostanza, sotto la sottile crosta dell’ufficialità che da venti o trent’anni ricorda la memoria degli ebrei sterminati, temo esista da tempo nella pancia del paese chi la pensa diversamente, chi ha mal sopportato “tutto questo spazio” che gli ebrei hanno, addirittura con una “loro” giornata e con una legge che prevede il carcere per chi mette in dubbio la realtà o le dimensioni dell’Olocausto. In una confluenza tra residui del vecchio antisemitismo di destra e nuovo, emergente antisemitismo di sinistra, filopalestinese e filo-Hamas, vi è oggi chi, accostando Hitler e Netanyahu, si sente finalmente libero di manifestare la propria ostilità radicale verso il “colonialismo”, il “razzismo”, il “nazismo” di Israele. Ed è perfino possibile che a tutto questo abbia involontariamente contribuito quella retorica celebrativa che – in ogni scuola come ai vertici delle istituzioni – prendeva corpo il 27 gennaio di ogni anno e, con essa, l’inadeguatezza di una conoscenza spesso fondata soprattutto sull’emotività e la commozione.
 

Del resto, abbiamo dimenticato che la presenza centrale della Shoah nel nostro discorso pubblico è un fenomeno abbastanza recente. Poco dopo la guerra, come viene spesso ricordato, Se questo è un uomo di Primo Levi fu inizialmente respinto dalla Einaudi perché “in genere – scriveva nel settembre 1948 l’allora direttore editoriale Cesare Pavese a un ebreo che aveva proposto un libro sui suoi quattro anni in un campo di concentramento – rifiutiamo ogni libro sull’argomento”. Negli anni 60 c’erano manuali scolastici che della questione non parlavano affatto. Perfino uno dei più diffusi, opera di un affermato studioso (politicamente su posizioni di sinistra) come Armando Saitta, vi accennava appena, senza fare alcun riferimento alle dimensioni quantitative assunte dallo sterminio degli ebrei. Questa scarsa attenzione aveva varie ragioni, a cominciare dal fatto che la diffusa interpretazione del fascismo come espressione degli interessi del grande capitale portava a individuare le vere vittime del fascismo nelle masse popolari, assegnando così agli ebrei un ruolo del tutto marginale. Nel film-documentario del 1961 All’armi siam fascisti – che per i testi aveva potuto avvalersi dell’opera di Franco Fortini – a un certo punto la voce fuori campo spiegava così le persecuzioni antiebraiche: “Chi vuol comandare ha bisogno di servi. I servi avranno un contrassegno: la stella di David. L’odio di classe si traveste da odio di razza”. Gli ebrei, insomma, rappresentavano soltanto delle vittime secondarie e quasi abusive. Per quanto possa sembrare incredibile a chi ha frequentato le scuole negli ultimi decenni, va ricordato che anche le leggi razziali del 1938 erano un argomento quasi dimenticato, a lungo sostanzialmente assente dai libri scolastici come dal discorso pubblico.
 

La vera svolta ci fu a partire dagli anni 90: nel 1995 una risoluzione del Parlamento europeo auspicava la creazione di un apposito Giorno della memoria, che la Germania istituì l’anno dopo e l’Italia nel 2000. Sembrava un cambiamento definitivo, ma l’accusa a Israele di perpetrare un genocidio e la banalizzazione della Shoah che ne consegue indicano che siamo entrati in una nuova fase

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