Una donna cammina accanto a manifesti con foto degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Hadera, Israele (Amir Levy/Getty Images) 

L'editoriale dell'elefantino

Agitare il fantasma impossibile della resa di Tsahal è un trucco per legittimare Hamas

Giuliano Ferrara

Da settimane si evoca il fantasma impossibile della resa e dell’implosione di coloro che furono vittime del pogrom del 7 ottobre 2023, di coloro che combattono per sradicare l’organizzazione nemica. E ora chi ha disumanizzato i kibbutz si trova a essere giudice della disumanizzazione di Tsahal

Da settimane poteri degnissimi, e spesso anche alleati di Israele nell’arco di paesi e popoli democratici dell’occidente, ripetono che Tsahal deve moderarsi, che una tregua umanitaria o un cessate il fuoco, forse temporaneo forse definitivo, sono all’orizzonte del necessario e dell’urgente, che le evidenti tragiche sofferenze della popolazione civile della Striscia di Gaza sono un incubo e possono diventare perfino, nella coscienza degli amici e dei nemici di Israele, un incubo genocida; da settimane si evoca in varia forma, sia la caduta del governo di Gerusalemme troppo a destra sia nuove elezioni sia la crisi del sionismo sia la degenerazione della democrazia israeliana, si evoca il fantasma impossibile della resa e dell’implosione di coloro che furono vittime del pogrom del 7 ottobre 2023, di coloro che combattono per sradicare l’organizzazione nemica. Una delle organizzazioni terroristiche non statuali ben collegata a un asse di resistenza che comprende stati potenti e alleanze insidiose, con entità prenucleari, anche. La resa di Tsahal sì, ma non si riesce non dico a imporre come tema dominante ma neanche a proporre come tema dirimente la semplicità che è difficile a farsi, la resa di Hamas, la consegna degli ostaggi rimasti vivi nelle mani delle loro famiglie, l’esilio o la consegna senza condizioni dei capi che ordinarono l’eccidio del 7 ottobre. Un fenomeno che si può ben definire sconcertante. Capisco che suoni pura retorica imporre ai ratti che hanno diffuso la peste della guerra di uscire dai tombini, e che sia retoricamente più efficace fermare, per i suoi costi velenosi, la derattizzazione forzata. 

Eppure si intuisce il ghigno di Sinwar, che gode alla prospettiva di nuovi atti di combattimento a Rafah, di nuove tragedie da addossare a Israele per tenere viva la fiamma della distruzione dell’entità sionista. Chi ha disumanizzato i kibbutz si trova ora a essere giudice della disumanizzazione di Tsahal, non è chiamato all’unico possibile segno di pace, la resa, la riconsegna del bottino umano frutto della pirateria, e l’opinione umanitaria internazionale si disinteressa di questo giudice tardivo o lo idoleggia con parole d’ordine di liberazione della Palestina dal fiume al mare, retorica dell’annientamento dello stato ebraico. Eppure la logica, di molto superiore alla retorica sofistica, dice che fermare Israele vuol dire la sconfitta di Israele e la vittoria di Hamas e del suo gruppo di testa. Predoni fanatici che hanno pianificato le atrocità contro gli inermi, consapevoli della risposta necessaria evocata dall’attacco esistenziale a una nazione armata e pronta all’autodifesa e del dramma tragico che ne sarebbe derivato per il loro popolo.

Una signora con una voce adulta, matura, significativa, ha interloquito ieri, succede anche questo, non c’è solo la girandola delle frasi umanitarie belle e fatte, con una trasmissione di Rai 3 ponendo, unica voce non convenzionale dall’inizio della tragedia di Gaza, la semplice questione che era stata simbolicamente opposta da un ragazzo, rivolto ai pro palestinesi in corteo o sciame vociante, con il cartello Free Gaza from Hamas. La signora ha domandato: si può sapere perché continuiamo a dimenticare che Hamas potrebbe porre fine alla guerra all’istante, issando la bandiera bianca sui suoi bunker hitleriani, risparmiando al suo popolo la sciagura? Si dice che Hamas non è degna  nemmeno di ricevere una simile domanda e che la fine della guerra, anche a prezzo della sconfitta, è una responsabilità che ricade soltanto sulla democrazia israeliana e sul governo di unità nazionale che conduce con lo stato maggiore e l’intelligence le operazioni di smantellamento del terrorismo. Ecco, questo è un caso tipico di retorica sofistica, un modo sghembo di evadere il problema vero, che sarebbe quello, per l’Onu, per Biden, per gli arabi che si considerano fratelli dei palestinesi, di risolvere la faccenda, chiedere al boia Sinwar di alzare le mani e graziare i condannati, neonati compresi, che giacciono nelle sue galere sotterranee. Che la signora della radio l’abbia capito con spontaneità e naturalezza, e che i firmatari di appelli e manifestanti vari non l’abbiano capito affatto, è un sintomo sinistro di pigrizia o di odio preconcetto per il famoso sionismo in crisi che sarebbe una versione del colonialismo. Molti pensano che non si debba chiedere la resa di Hamas semplicemente perché sono convinti che Hamas ha ragione e che il 7 ottobre fu un atto di resistenza. Una bestemmia, ovviamente, che si può compensare soltanto chiedendo una impossibile resa a Israele. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.