ansa 

armi fai da te

I droni fatti con i legnetti e le gallette di riso. Così la guerra diventa low cost

Filippo Lubrano

Da sempre le limitazioni di budget hanno stimolato la creatività anche in ambito tecnologico. Oggi una nuova generazione di combattenti molto più abituati a smanettare su hardware e software che alla vita da trincea sta ridefinendo le tattiche di guerra con droni e armi fai da te 

Il legame tra innovazione tecnologica e comparto militare è noto, e molto stretto. Poter contare su una supremazia in questo campo non dà sempre garanzia di successo nei conflitti, ma i Vietnam sono sempre più rari, ed è ragionevole sostenere che ne sia oggi con buona approssimazione un discreto indicatore. I recenti conflitti hanno aggiunto un nuovo strato rispetto ai canonici tre mirabilmente descritti da Nolan in Dunkirk (aria-terra-mare): quello, ben più subdolo e difficilmente visibile, del mondo cyber. Ma che succede quando il fronte mette davanti uno o più paesi low-tech? Se alcuni prodotti militari sono ormai considerabili come commodity, e facilmente acquistabili sul mercato, per colmare le lacune di budget spesso è la creatività che fa la differenza.


Si è tornati a discutere del caso di tecnoprimitivismo applicato in Yemen, in cui il corpo robotico di un drone è stato installato su una base di rami tagliati: probabilmente un drone caduto a terra quasi intatto nella sua parte elettronica e meccanica, e la cui accessoristica è stata oggetto di una mirabile applicazione pratica di economia circolare e d-i-y (“fai da te”). Un caso non isolato, se è vero che già si era visto nel warfare mediatico del conflitto russo un drone russo abbattuto al cui interno si notavano componentistiche assai low-cost da riciclo creativo, quali tappi e altri pezzi di plastica. Da sempre le limitazioni di budget e risorse hanno stimolato la creatività anche in ambito tecnologico e informatico. Fu così per i cyber-gauchos, la generazione di millennials argentini che dovettero fare di necessità virtù reinventandosi come hacker per crackare software e hardware a causa dell’inflazione che rendeva loro impossibile acquistare le versioni originali dei programmi dei computer – quand’anche non i computer stessi. Ed è così anche per il movimento cosiddetto “lunarpunk”, che ha come obiettivo quello di tornare a vivere in armonia con la natura e tornare alla terra abbracciando la tecnologia avanzata, o ancora per le numerose varianti di tecnoprimitivismo che ne modulano la visione pessimista dello sviluppo tecnologico, come quella destroide della rinascita arcaica di Terence McKenna, che aspetta con ansia la singolarità tecnologica per far accedere l’umanità a un’era di maggiore complessità.

 
E oggi che i budget stanziati dai Putin, gli Zelensky e forse anche i Netanyahu di turno vanno esaurendosi, una nuova generazione di combattenti molto più abituati a smanettare su hardware e software che alla vita da trincea sta ridefinendo le tattiche di guerra seguendo più o meno involontariamente le logiche della sostenibilità. Il fenomeno noto negli Stati Uniti come “tinkering”, ovvero gli smanettoni capaci di smontare e rimontare qualsiasi tipo di oggetto tecnologico, secondo la pratica nota come “reverse-engineering”, ha precedenti anche in ambito asiatico. In particolare in Cina, dove l’area economica speciale di Shenzhen aveva visto l’emergere dell’applicazione in ambito informatico del fenomeno dello “shanzhai”. Lo shanzhai indica il processo di copia creativa, effettuata spesso con materiali di scarto e al risparmio, e che implica di sovente scimmiottature del brand originale. Lo shanzhai per un lungo periodo è stato il sinonimo stesso del “made in China”, almeno negli anni Novanta e nei primi Duemila. Tutt’oggi, recandosi nel mercato di Huaqianbei nella nuova megalopoli cinese confinante con Hong Kong (14 milioni di abitanti, erano 30 mila negli anni Ottanta), su cui Deng Xiaoping aveva sperimentato le prime aperture capitalistiche del socialismo con caratteristiche cinesi, è possibile comprare pezzo per pezzo tutta la componentistica di un iPhone o di un televisore Samsung, per farseli poi assemblare localmente, ottenendo lo stesso prodotto a meno di un quinto del prezzo originale. O magari farsi inventare un prodotto completamente nuovo, sulla base delle caratteristiche desiderate, se non di un restyling creativo robotico à la Frankenstein. Anche qui, un po’ come in Argentina con i cyber-gauchous, lo shanzhai ha svolto un ruolo non solo economicamente, ma anche culturalmente cruciale in Cina, risultando un fondamentale acceleratore all’adozione di massa di tecnologie che, nella loro versione originale, semplicemente non erano accessibili per il reddito pro-capite del paese.


Tornando ai droni, è interessante notare come il fenomeno stia lentamente fuoriuscendo dall’ambito bellico strettamente inteso per spostarsi in altri contesti, come ad esempio quello della gestione di situazioni emergenziali. Storicamente esenti dall’agone dei conflitti, i ricercatori svizzeri dello Swiss Federal Institute of Technology di Losanna (Epfl) si sono  spinti fino a presentare allo Ieee/Rsj, la conferenza internazionale sui sistemi e robot intelligenti di Kyoto, un drone le cui ali sono fatte da torte di riso soffiato, o gallette, edibili. In questo caso, il contenitore coincide col contenuto: il riso non è solo il mezzo di trasporto, ma il prodotto che si vuole consegnare nel caso in cui una persona si trovi in una zona sufficientemente remota da non poter essere raggiunta in nessun altro modo. Nel paper presentato dagli studiosi di Losanna si è evidenziato infatti che le gallette di riso somigliano non solo visivamente ma anche per caratteristiche chimico-fisiche al polipropilene espanso, di cui più comunemente le ali dei droni sono fatte. Su internet è quindi ora un florilegio di video-ricette per preparare le migliori gallette volanti disponibili sul mercato, regalandoci perle di interviste agli ideatori dello strano gastro-velivolo che si distinguono per domande quali: “Di cosa sa il drone?”.


Il drone edibile è solo una delle applicazioni su cui sta lavorando l’iniziativa di ricerca europea chiamata “RoboFood”, che ha come obiettivo quello di “creare robot che possano essere mangiati, e cibi che si comportino come robot”, ridefinendo di fatto il confine e la geografia immaginifica di quella che conosciamo come “Uncanny Valley”. Val la pena segnalare che i destinatari dell’iniziativa non sono solo gli esseri umani, ma anche animali domestici e selvatici. Perché il patto di solidarietà umano-macchinica che si sta delineando, interpretando appieno lo spirito del tempo, non sarà solo intersezionale, ma anche antispecista.
 

Di più su questi argomenti: