Rafah, uno dei camion della società Sons of Sinai di al Argani, con la scritta "Abnaa Sinai" vicino alla bandiera dell'Unicef (foto Ansa)

Il boss di Rafah

Chi è l'uomo di Sisi in Sinai che decide cosa e chi entra ed esce da Gaza

Luca Gambardella

Si chiama Ibrahim al Argani ed è un trafficante in affari con l'esercito egiziano. Oggi, chiunque voglia scappare da Gaza o intenda inviare aiuti umanitari deve versare denaro nelle sue società

Chi vuole scappare da Rafah deve chiedere di Ibrahim al Argany, un trafficante diventato l’uomo del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi in Sinai. Al Argany ha una storia controversa. Appartiene alla tribù beduina dei Tarabin e nel 2008 è stato incarcerato e torturato per due anni dopo che aveva rapito dei poliziotti per vendicarsi dell’omicidio del fratello. Oggi è un imprenditore affermato, un boss che vanta legami stretti con l’esercito egiziano e sponsor della squadra di calcio dell’al Ahly, la cui tifoseria organizzata ha un ruolo di primo piano nelle dinamiche politiche e sociali dell’Egitto. Hala, la società di trasporto e logistica guidata da al Argany, è quella che gestisce chi entra e chi esce da Rafah. Dipende tutto dalla compilazione delle “liste di coordinamento”, un elenco con i nomi di chi può  lasciare la Striscia. I nomi sono proposti dalle autorità palestinesi e vagliati da Israele ed Egitto. Per entrare nella lista è necessario rivolgersi a  Hala. I costi li ha svelati un’inchiesta di Mada Masr, un giornale indipendente egiziano. I palestinesi pagano  fra i 2.500 e i 5 mila dollari. Per chi invece possiede lo status di rifugiato servono 1.200 dollari. Per chi ha il passaporto egiziano basta una cifra fra i 350 e i 650 dollari.

 Ibrahim al Argani

Secondo alcuni testimoni al valico di Rafah, la domanda che le autorità egiziane  chiedono sempre è: “Chi è che sta coordinando per te?”, un modo per chiedere a chi si stia pagando il pizzo. E negli ultimi mesi al Argany si è aggiudicato il monopolio delle liste di coordinamento, sebbene il suo ruolo vada ben oltre. La settimana scorsa gli egiziani hanno avviato un cantiere al confine con Rafah per costruire un campo che dovrebbe accogliere migliaia di palestinesi nel caso in cui Israele lanciasse l’offensiva militare verso la città. L’appalto per la costruzione del campo è andato alla Sons of Sinai Construction, un’altra società di al Argany con stretti legami con l’esercito egiziano.

Anche il flusso degli aiuti umanitari  e dei beni commerciali dipende da lui. Tutti, stati terzi e organizzazioni internazionali, usano i suoi camion perché a differenza degli altri non hanno liste di attesa infinite. Così i suoi mezzi entrano ed escono da Rafah marcati dal logo giallo con la scritta “Abnaa Sinai”, che campeggia al fianco di quello dell’Unicef o della Mezzaluna Fertile. In un documento pubblico si evince come l’agenzia dell’Onu dell’Unrwa abbia stanziato oltre 2, 7 milioni di dollari per la società di al Argany, per il trasporto di beni e gasolio attraverso Rafah. 

 

La Sons of Sinai, “creata nel 2010 per servire l’economia egiziana”, come recita il sito della società, è una specie di partecipata dello stato egiziano. Dopo la guerra del 2014 a Gaza, conclusa con la mediazione dell’Egitto, Sisi convocò una conferenza internazionale con cui raccolse 5,4 miliardi di dollari, la metà da investire nella ricostruzione di Rafah. Al Argany propose di usare il denaro per mettere insieme le tribù del Sinai in una società e di fidarsi dei loro legami economici, ma anche di sangue, con l’altro lato della frontiera. Per le autorità centrali del Cairo, da Mubarak in poi, il Sinai è stato sempre una terra difficile da controllare, in cui i beduini erano discriminati, considerati cittadini di seconda classe. Investire nello sviluppo della penisola e di Rafah fu un’occasione unica per Sisi, oltre che una buona opportunità economica per l’esercito. La società che ne nacque, la Misr Sinai Industrial Development, è ancora guidata da al Argany ed è controllata per il 51 per cento dalle Forze Armate e per il 49 dalle tribù. Poi, nel 2022, Sisi ha nominato al Argany membro della Sinai Development Authority, l’agenzia statale che gestisce gli investimenti nella penisola. 

 

L’altro piano su cui Argany si è mosso per cementare la sua amicizia con Sisi è stato quello della sicurezza. Con l’ascesa di Ansar Bait al Maqdis, la provincia dello Stato islamico nel Sinai, l’esercito egiziano è stato coinvolto in una guerra fallimentare contro gli islamisti, che erano in grado di fare proseliti tra i beduini della penisola scontenti dalle discriminazioni  del Cairo. Nel 2015 al Argany, d’accordo con Sisi, mise in piedi una coalizione fra le tre principali tribù del Sinai – la Romaylat, la Sawarka e la Tarabin – per combattere gli islamisti. I metodi impiegati erano spicci, per usare un eufemismo, tra torture, espropri, violenze e reclutamento di bambini. Ma le milizie di al Argany si resero abbastanza efficaci da meritarsi un mensile da parte dello stato e l’autorizzazione a circolare armati. Secondo il giornalista e blogger egiziano Hossam el Hamalawy, la chiusura del valico di Rafah imposta da Sisi sta facilitando il business di al Argany. “Il suo sistema di corruzione, il monopolio nella ricostruzione di Rafah e nella consegna degli aiuti sfruttano la disperazione dei palestinesi”, dice al Foglio. “Ma se il valico resta ancora chiuso è prevalentemente perché Sisi considera i palestinesi una minaccia per la sicurezza”. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.