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Scrivere con il fucile

Micol Flammini

I giornalisti ucraini affrontano il dilemma su cosa sia giusto raccontare quando l’invasione del tuo paese è anche  una questione di comunicazione, dai campi di battaglia alle inchieste politiche. Primo comandamento: non danneggiare

L’Ucraina è un paese in cui la stampa scandalistica è una questione di canali telegram, in cui la carta non esiste e si legge quasi tutto online, in cui i giornalisti seguono il presidente Volodymyr Zelensky e i suoi collaboratori fino alla porta di casa, in cui piccole testate indipendenti e molto agguerrite dedicano la loro vita a inchieste contro la corruzione perché ritengono che la politica sia troppo lenta e se non sono i giornalisti a pensarci, l’Ucraina non si libererà mai di corrotti e oligarchi. Questa è una prima rapida fotografia di tutte le stramberie e unicità della stampa ucraina, in cui il dettaglio più curioso è sicuramente la mancanza di una dedizione profonda e di un occhio attento per la vita e gli amori di personaggi dello spettacolo e della politica. E non è una questione di tempo o di guerra, ma dal parrucchiere non c’è l’abitudine di trascorrere il tempo con gli occhi immersi tra baci, diete, vacanze altrui. E oltre al fatto che l’hamburger gli ucraini lo mangiano infilandosi i guanti di lattice, questa sembra una delle grandi differenze culturali tra gli ucraini e noi. Neppure l’assenza dei giornali di carta ha a che fare con l’invasione russa, ma la guerra totale che Vladimir Putin ha imposto a questo paese autocritico, resistente – e poco pettegolo, a giudicare dall’assenza di riviste patinate – ha cambiato il modo di essere giornalisti, il modo di scrivere, fare domande, condurre inchieste

 

Dopo i primi mesi di guerra, non c’era giornalista che non avesse scritto un coccodrillo per un amico. Il lutto privato si unisce a quello nazionale

  
I giornalisti ucraini dal 24 febbraio del 2022 sono sprofondati in un dilemma senza scampo, anche perché l’invasione russa è totale, riguarda i confini, il modo di dormire e di non dormire, di vivere, di viaggiare e punta a invadere anche la comunicazione. Anche giornalisti che non erano abituati alla guerra sono andati al fronte, si sono messi l’elmetto e hanno imparato, come altri ucraini, a maneggiare nozioni su gittate di missili e colpi di artiglieria, su lacci emostatici e iniezioni. Chi conduceva inchieste puntute si è fermato e ha messo le sue abilità a servizio di altro, di un lavoro più doloroso, meticoloso a cui mai avrebbe pensato di doversi dedicare. La guerra ha aperto dilemmi, ha posto domande, perché un conto è essere un giornalista italiano, tedesco, americano pronto a seguire il conflitto di un paese altrui, un altro è quando è il tuo paese a essere attaccato, è la tua casa a essere bombardata, è la tua famiglia da portare in salvo, è tuo marito ad avere il futuro bloccato da una possibile chiamata alle armi. Per noi giornalisti stranieri, questa è una guerra europea, ma una guerra d’altri, c’è sempre un paese in pace in cui poter sempre fare ritorno. Per i giornalisti ucraini questa è una lotta per la propria sopravvivenza, non c’è un’altra casa, non c’è un altro paese in cui le sirene non suonano, i crimini riguardano te, la tua vita, il tuo amore, le scelte che non sempre hai il lusso di poter prendere. In Ucraina tutti sembrano conoscersi, nel territorio enorme che congiunge in milletrecentosedici chilometri l’ovest della salvezza e l’est della dannazione c’è sempre un legame, una cena insieme, un caffè in compagnia, una parola scambiata un attimo prima del pericolo. E’ un paese famiglia, e questo conoscersi assiduo e schietto è anche una condanna. Dopo i primi mesi della guerra totale, non c’era giornalista che non avesse scritto un coccodrillo per un amico. Non c’era giornalista che non avesse consegnato alla stampa le più belle parole mai dette a un collega. Il dolore che accomuna è un dolore pubblico, ma mai urlato, il lutto privato si unisce a quello nazionale e quando i giornalisti si sono resi conto che giorno dopo giorno riuscivano ad avere parole dedicate soltanto a colleghi uccisi dalla guerra, c’è stato un moto, una sveglia, una ribellione al lutto diffuso e si sono detti che non era il momento di specializzarsi in coccodrilli, era troppo pericoloso: bisogna dare spazio alla lotta per rimanere vivi. 

 

Una classe di giornalisti molto attenta a gestire il potere, a sorvegliarlo, ma tutto questo improvvisamente ha avuto meno senso

  
Sonia Koshkina lavora per LB.ua, una testata che si occupa di politica, ha un rapporto diretto con il governo, e ha visto la sua professione cambiare di molto, ha sentito dentro di sé un richiamo diverso, un cambiamento che spiega con una frase semplice, che capovolge il mito del cane da guardia: “Con la guerra abbiamo capito che siamo prima di tutto cittadini, poi giornalisti”. Si può avere da ridire, si può criticare, ma dare una notizia o fare un’inchiesta in Ucraina può avere a che fare con la sopravvivenza e il primo comandamento del mestiere è diventato, dice Koshkina: “Non fare male, non danneggiare, non distruggere”. E’ semplice e non piace a tutti, l’Ucraina è cresciuta con una classe di giornalisti molto attenta a gestire il potere, a correggerlo, a sorvegliarlo, ma tutto questo improvvisamente ha avuto meno senso, la prima domanda da porsi è diventata logica e cruda: cosa ce ne facciamo di un’inchiesta sulla corruzione dello stato se i russi vogliono che uno stato ucraino non esista affatto? C’è molto da correggere, ci sarà tanto da rifare, ma la condizione necessaria è avere ancora un paese, poi ci sarà da ricostruire, da potenziare le istituzioni, da migliorare il giornalismo. Centinaia di giornalisti indipendenti hanno convertito la loro abilità nel fare ricerca e dall’investigare i conti bancari dei loro politici si sono messi a investigare i crimini di guerra. Sono passati dai documenti, dalle carte, dalle planimetrie delle case alle fosse comuni. Sono stati tra i primi a entrare a Bucha o a Izjum, sono loro che raccolgono materiale, testimonianze, ascoltano le parole di chi è vissuto sotto l’occupazione dei russi, di chi è stato tenuto prigioniero, raccolgono il materiale da mandare all’Aia per dire cosa è stata la guerra in Ucraina. 

 

C’è una libertà grande e una piccola, e in questo momento Zelensky è il campione di quella grande, spiegano giornalisti d’inchiesta

   
Un gruppo di giornalisti di inchiesta ha raccontato al Foglio che questo non vuol dire che improvvisamente abbiano cambiato idea sul loro presidente Volodymyr Zelensky, sono convinti che sia stato il volto nuovo da applicare a una politica vecchia troppo vicina al mondo degli oligarchi, ma ora i giudizi su Zelensky devono riguardare altro: la guerra, la trasparenza con i cittadini, la capacità di proteggerli. Sono stati dei giornalisti ucraini a raccontare degli scandali che hanno coinvolto alcuni collaboratori del presidente e anche il ministero della Difesa, sono stati loro a portare l’amato ex ministro Oleksiy Reznikov alle dimissioni per una faccenda che riguardava appalti e gare per comprare materiale per l’esercito, giacche primaverili vendute a peso di cappotti invernali. Il controllo è presente, ma tutto ha un fine e dietro a ogni fine ci sono dilemmi, domande, la paura che la vitalità di un paese democratico possa essere utilizzata dalla propaganda di Mosca. “Sappiamo che ci sono persone intoccabili per Zelensky, come il suo capo di gabinetto Andri Ermak. Sappiamo anche che Ermak potrebbe fare qualsiasi cosa, anche la più sconveniente, persino la più grave, ma rimarrebbe lì dov’è, perché per Zelensky è insostituibile. Questo ovviamente ci fa infuriare, come non sopportiamo che nessuno tra noi – hanno detto i giornalisti – è mai riuscito a parlare con il presidente, che invece rilascia interviste ai media internazionali”. C’è una libertà grande e una piccola, hanno spiegato, e in questo momento Zelensky è il campione di quella grande, di quella mondiale, di quella da cui dipende la sopravvivenza dell’Ucraina e la sicurezza dell’Europa. Di quella piccola non è un maestro, “ma nessuno può parlare di censura in Ucraina”. Neppure sulla decisione di rimandare le elezioni presidenziali si trovano sbavature, e chi non ama Zelensky è però concorde nel dire che sarebbe un voto non rappresentativo oltre a essere rischioso: “Il problema esiste, ma non è un abuso di potere, prima o poi dovremo votare, ma non sono queste le condizioni giuste per un paese democratico”, dicono gli appassionati di inchieste, ancora cani da guardia, ma consapevoli del loro ruolo. 

  

“Ho ascoltato storie di ogni genere, alcune ho capito che fosse meglio non farle uscire”, come quelle delle violenze sessuali: “Non ci sono riuscita”

  
I giornalisti che sono diventati corrispondenti dal fronte hanno spesso rapporti personali con generali e truppe, seguono i soldati, ne conoscono i segreti, ma più di una volta si sono chiesti cosa fosse giusto raccontare. “I segreti militari seguono regole diverse dalla politica – racconta Vladyslav Dolovin – le domande che ci facciamo riguardano quello che vediamo e percepiamo”. Il morale delle truppe ha un impatto su quello della popolazione e viceversa, il morale di un soldato e di un battaglione non può essere preso come punto di riferimento di tutto l’esercito. Su questo argomento compaiono scetticismo e un pizzico di rabbia nei confronti dei giornalisti internazionali, sulla fretta di riportare notizie dal fronte, rumori e turbamenti senza aspettare, senza domandarsi l’effetto che un racconto può fare: “Il problema non è la propaganda russa, sappiamo come riconoscerla, gli ucraini sono diventati esperti, il problema è che la fretta di certa stampa di parlare di fallimenti ha degli effetti locali e internazionali”. Un’Ucraina in difficoltà sul campo di battaglia è un’Ucraina che fatica a chiedere aiuti, è quella che i repubblicani al Congresso non vogliono più armare perché non è riuscita nell’impresa di una nuova controffensiva: “Il chiacchiericcio attorno alla controffensiva ha fatto i suoi danni, è questo che noi giornalisti ucraini cerchiamo di evitare. Non vuol dire che non parliamo dei fallimenti, se ci sono li raccontiamo. Guardate Avdiivka”, Dolovin si riferisce alla città nell’oblast di Donetsk che i russi vogliono conquistare e dove gli ucraini sono impegnati in una battaglia sanguinosa perché Avdiivka è importante, è la porta d’accesso dell’intera regione, si parte da lì per “deoccupare” i territori conquistati da Mosca. “Deoccupazione” è una parola nata ora, è anche il titolo di un romanzo di Bogdan Logvynenko, giornalista ucraino che ha raccolto i suoi reportage dal fronte e ha trovato le enormi differenze che ci sono con la “liberazione”. I russi, quando conquistano un territorio, dicono di averlo “liberato”, è un termine di cui si sono appropriati ma non è per questo che gli ucraini preferiscono non usarlo, non si tratta di concorrenza linguistica con il nemico. Deoccupare indica la fatica, indica il trauma, ogni volta che l’esercito ucraino riesce a riprendere un territorio in cui era arrivato l’esercito di Mosca deve portare via tutti i danni dell’occupazione, le macerie del male che è stato fatto, raccogliere le prove di torture, di prevaricazioni, i tentativi di cancellare l’identità ucraina. Non è soltanto una liberazione, ma è un riscatto dal trauma. E’ entrare in un mondo sovvertito e deturpato e mai ci si potrà davvero liberare dai danni dell’occupazione, si possono spostare, curare, ma rimarranno tutti. I giornalisti ucraini sono spesso i primi a entrare nelle zone “deoccupate”, a sentire le storie, a cercare i danni. Diana Butsko di Hromadske si è spostata al fronte dal 2014 e ammette di non aver avuto sempre la forza di raccontare tutto: “Ho ascoltato storie di ogni genere, alcune ho capito che fosse meglio non farle uscire, altre non sono riuscita a raccontarle. Le ho ascoltate, mi sono fatta consegnare il dolore in mano, ma non sempre una storia può essere trasferita ad altri. Per esempio mi è capitato ascoltando i racconti delle violenze sessuali: non ci sono riuscita, non potevo”. 

 
Armati o meno, i giornalisti ucraini raccontano un paese in cui vivono e in cui dovranno continuare a vivere. A volte hanno sostituito la penna con il fucile, a volte sono andati a combattere.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.