Una mensa comune in Cina durante il periodo di carestia - foto Wikimedia

Letture

Le tragedie nascoste tra Cina e Ucraina. Un libro

Adriano Sofri

È uscito per Adelphi il volume sulla Grande Carestia in Cina, una delle tragedie più sottovalutate dalla storia insieme all'Holodomor. "Il mio desiderio più grande è che quest’opera sia conservata nelle biblioteche di tutto il mondo anche dopo che me ne sarò andato", scrisse l'autore, Yang Jisheng

Ci sono cose terribili ed enormi che non si sanno. Ce ne sono, altrettanto terribili, che si crede di sapere. Per esempio, la grande carestia ucraina, l’Holodomor. Fino a due anni fa, chi “lo sapeva”, non andava oltre tre o quattro righe: una terribile carestia, soprattutto nel biennio 1932-33, tra i 2 e i 3,5 milioni di morti, secondo qualcuno dovuta agli errori e al cinismo staliniano, secondo altri deliberata per stroncare il nazionalismo ucraino. O la Grande Carestia cinese, da sempre con le maiuscole, la più grande, che coincise con il disastro del Grande Balzo in avanti, 1958-62, e fece decine di milioni di morti. Una volta che si sia “saputo” questo, si può accontentarsi, e prepararsi a dimenticare. Nel 1996 uscì il discusso libro dell’inglese Jasper Becker, “Hungry Ghosts: Mao’s Secret Famine” (“La rivoluzione della fame. Cina 1958-62, la carestia segreta”, il Saggiatore 1998). Gli “spettri della fame” sono un’espressione buddista; dunque la carestia vi veniva ancora chiamata “segreta”. Adelphi ha appena tradotto il gran libro del cinese Yang Jisheng (1940), “Lapidi. La Grande Carestia in Cina”, 834 pagine. Nell’edizione originale, Hong Kong 2008, ne aveva 1.100. (versioni inglese e francese erano uscite nel 2012). Il titolo qui ha quattro propositi: erigere una lapide al padre adottivo, lo zio dell’autore, morto di fame nel 1959; una ai 36 milioni di cinesi morti di fame; una al sistema che produsse la Grande Carestia; la quarta a se stesso, “se dovesse succedermi qualcosa di irreparabile”. Yang ha lavorato per l’agenzia Xinhua, Nuova Cina, e in questa veste, dopo aver ripudiato l’adesione militante – “obbedivo ciecamente al partito” – di fronte alla Grande Rivoluzione Culturale (è tutto grande…), poté trascrivere con uno stratagemma innumerevoli pagine di archivio, visitare le province e raccogliervi per anni le testimonianze personali dei superstiti. (Una conferenza di Yang era stata tenuta a Torino nel 2014 per l’Istituto Bruno Leoni che la pubblicò nei suoi Occasional Papers, nella traduzione di Natalia Riva, anche traduttrice del volume Adelphi).
 

Altri testi importanti, come “Mao’s Great Famine: The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958–62” (2010) dello storico olandese Frank Dikötter (di lui Marsilio ha tradotto “La Cina dopo Mao”), hanno riconosciuto il proprio debito con la ricerca di Yang. Intanto gli archivi cinesi si erano almeno parzialmente aperti, e la bibliografia sulla Cina non fa che arricchirsi – come nelle biografie di Mao, che il tempo ha sempre più colorato di connotati psichiatrici, com’è da aspettarsi per ogni Grande Leader dal culto abbagliante e dal potere abbagliato, e dai cuochi e i medici curanti loquaci.
 

In quel quadriennio, Mao mirava a bruciare i tempi dell’industrializzazione, che avrebbe portato la Cina a superare la Gran Bretagna nel giro di quindici anni, anzi di sette, e gli Stati Uniti in otto o dieci. E, obiettivo meno dichiarato ma altrettanto e più agognato, l’Urss di Krusciov. (Di fatto il Pnl cinese, che nel 1955 era il 4,7 per cento del mondiale, nel 1980 era sceso al 2,5). Ancora, ad abbreviare la transizione dal “socialismo” al comunismo – niente più classi, a ciascuno secondo i suoi bisogni. In quella Cina che contava allora 650 milioni, con 110 milioni di famiglie di contadini indipendenti, l’agricoltura venne brutalmente collettivizzata, nell’intento di eliminare la proprietà e il suo desiderio, di esportare cereali in Urss in cambio di macchinari e tecnologie (anche l’Urss esportava alimenti nonostante la carestia negli anni ’30), di trasformare una gran massa di contadini in operai, di moltiplicare la produzione di ferro e acciaio (fino a 100 milioni di addetti, per 600 mila piccole fornaci rurali). E di anticipare il comunismo nelle Comuni in cui si lavorava, si abitava, si mangiava insieme – abolita ogni proprietà, casa, orto, animali domestici, “a parte le mogli”. Stoviglie, posate, attrezzi di lavoro finivano nella mensa popolare o negli altoforni di villaggio. Passato il paio di mesi in cui si diede fondo ai magazzini per saziare le mense, non restavano risorse capaci di sfamare lavoratori sottoposti a fatiche collettive stremanti – colossali e insensate opere di irrigazione e deviazione di fiumi, un’emulazione dell’imperiale modo di produzione idraulico
 

Il potere centrale sopravvalutava spropositatamente le riserve di cereali, e la scala di poteri inferiori faceva a gara per vantare obiettivi record e mentire sui successi. Ci fu una crescita elefantiaca della piramide di funzionari governativi: 60 milioni, il 7 per cento della popolazione rurale, che incamerava fra il 10 e il 30 per cento delle entrate. La necessità di tenere a bada una popolazione spinta alla fame accresceva a dismisura, col fanatismo della propaganda di partito, la militarizzazione dei rapporti sociali e la repressione violenta delle ribellioni. Com’era successo nell’Unione sovietica (quasi tutto era già successo nell’Urss, su una scala colossale e tuttavia inferiore) un addottrinamento totalitario spinto fino al rinnegamento dei vincoli familiari induceva all’autoaccusa e al sacrificio di sé. Nei “Tre no”, al governo, allo stato, e alla famiglia, i primi due andavano al contrario, l’eliminazione della famiglia procedeva. “A eccezione delle nostre mogli, nulla sarà più privato” – così il segretario di una comune nello Hubei, magnifico compendio. (E in un rapporto del Liaoning, nel 1960: “Qualcuno si lamenta: ‘A parte le mogli e i figli, hanno voluto tutto’”) “Senza utensili e fornelli, in casa – chi ne conservasse una – non si poteva nemmeno far bollire l’acqua”. E succedeva che la fame, quell’inimmaginabile morso della fame, divorate le cortecce e l’argilla e i topi, portasse a cibarsi dei cadaveri e al cannibalismo – come in Ucraina, e nel 1931 in Kazakistan… A cibarsi dei figli – scambiandoli, a volte, così da mangiare i figli dei vicini. I casi di cannibalismo si contarono a migliaia. Si diceva che i cani randagi si cibassero dei cadaveri, ma non era possibile: tutti i cani erano già stati mangiati. A volte i bambini sopravvivevano agli adulti: raccontavano che i calcagni e i palmi delle mani erano le parti più buone. Gli edemi provocati dall’inedia venivano messi in conto a un’epidemia – la fame era innominabile. Il libro di Yang è una minuziosa registrazione degli eventi provincia per provincia, e una Spoon River di milioni. 
 

È favolosamente tragica anche la “Campagna per l’eliminazione dei Quattro Flagelli” – la questione dei passerotti. Il pensierino di Mao, “acchiappare il passero con gli occhi bendati”, non era solo una metafora. Si mobilitò un arsenale di milioni di adulti armati di tutto, dai fucili alle casseruole sbattute per impedire ai passeri di posarsi e ucciderli per sfinimento, di bambini armati di fionda, e si sterminarono i passeri, che non rubassero semi e germogli. Restarono a trionfare locuste, parassiti e insetti nocivi. 
 

Al cuore della grande carestia ucraina sta l’interrogativo su un deliberato disegno di distruzione fisica e culturale della gente ucraina. Gli storici di professione e quelli di ambizione non smetteranno mai di discuterne. L’Holodomor come genocidio è diventato, non da molto, la fondazione civile dell’Ucraina indipendente e della sua memoria comune, evocata a superare un passato di divisioni accanite e feroci fra le sue regioni e fazioni. Per la Cina non è così – benché il genocidio sia stato evocato anche qui. Una recensione elogiativa a Yang di Lucien Bianco (1930), l’illustre storico dei contadini cinesi, dedicata soprattutto al confronto fra carestia ucraina e cinese, dice: “Se Stalin è inarrivabile quanto a barbarie, i discepoli cinesi l’hanno superato in fatto di menzogne”. Che la dirigenza comunista, da Mao in giù, fosse consapevole del costo che la popolazione pagava alle scelte politiche, è indubbio. Mao avrebbe detto, nel 1959, che “Quando non c’è abbastanza da mangiare la gente muore di fame. È meglio lasciare che la metà del popolo muoia di fame così che l’altra metà possa saziarsi”. (Sia l’attribuzione che il suo contesto sono controverse). Che la leadership comunista vi si sia cinicamente adattata, per accecamento ideologico e, più ancora, per lotte di fazione e regolamenti di conti intestini, è altrettanto certo. “Errori”, resta la conclusione ufficiale, che già Deng successore e revisore di Mao sancì, con lo sconto (70 per cento buono, 30 sbagliato…). Lettere “scritte col sangue” che invocavano l’aiuto delle autorità finivano confiscate. Di quegli errori i massimi dirigenti cinesi furono presto consapevoli, alcuni accettando di chinare la testa e umiliarsi, come l’insigne Zhou Enlai, altri avventurandosi a denunciarli a un costo carissimo, come Peng Dehuai e più tardi Liu Shaoqi. Nel 1962, Liu disse a Mao: “La morte per fame di tante persone passerà alla storia e sarà attribuita a noi, così come gli episodi di cannibalismo!”. Peng era stato il compagno d’armi, il comandante supremo della guerra di Corea, quello che poteva entrare nella stanza di Mao senza bussare. Nella famigerata Conferenza di Lushan, aperta nel luglio 1959 e durata 46 giorni, Mao esortò a parlare francamente, il disgraziato Peng ci credette e segnò la propria fine, la conferenza si concluse con una riaccesa svolta “a sinistra”. C’era un metodo in Mao, cui non si ribatteva. A chi lo adulava negando che si prestasse al culto della personalità, replicava: “Come puoi non avere un culto della personalità?” E dopo aver ascoltato, se non fomentato, le arringhe contro l’avventurismo: “Io mi oppongo a chi si oppone all’avventurismo”. Lushan provocò secondo Yang “28 milioni di morti in più”. Per altri tre anni, le condizioni che avevano causato la carestia restarono immutate. Leggere il resoconto di Lushan dalle “Memorie personali” di Li Rui toglie il respiro, anche a chi abbia dimestichezza con le grandi purghe staliniane. Colpisce tanto più che alcuni, pochi, di quegli uomini ebbero la forza di non tradire il proprio passato, di non tradirsi. Li Rui non era abbastanza importante, e venne “solo” mandato in un campo di lavoro, e poi in una galera. (Li tenne ininterrottamente un diario dal 1935 al 2019, quando morì, a centodue anni).
 

Vorrei fermarmi sulla “minimizzazione”. Anche il dibattito sulla Grande Carestia infatti, tolte le posizioni platealmente apologetiche che sono una versione di negazionismo, finisce per concentrarsi sulle cifre. Yang Jisheng calcola i 36 milioni di morti “non naturali”. Per fame. E per bastonature, torture, assassinii: di chi scappava dal proprio villaggio a cercare il cibo, “criminali in fuga”. Di chi tentava di occultarlo: “Nascondere un chicco di grano è come nascondere un proiettile”. Negli “attacchi di gruppo”, perché la muta scatenata esisteva ben prima dei social, e culminò nella Rivoluzione Culturale. Yang vi aggiunge 40 milioni di non nati per il crollo della natalità. Le calamità naturali erano una costante cinese, ma in quegli anni non eccedettero l’andamento ordinario. Né fu decisiva la rottura con l’Urss sulle forniture di trattori o di ingredienti per l’atomica (e sull’ideologia), consumata tardi, nel 1959. Altri autori forniscono cifre largamente inferiori o superiori – fino a 55 milioni e oltre. L’accanimento delle dispute sulle cifre ha spesso una componente strumentale: ridurre o aggravare la sentenza sulle responsabilità – di Mao, del Pcc, dell’economia pianificata, del comunismo. Procurarle attenuanti o aggravanti. Succede, oltre che per eccellenza sulla Shoah, per tutte le questioni più laceranti: sul femminicidio con uno speciale zelo. Diminuire è un po’ negare. Ma la minimizzazione è anche un gran congegno psicologico della buona fede. Ciò che non si può e nemmeno si vuole negare – è avvenuto, non avvenga “mai più” – può solo essere indagato nella speranza di diminuirlo. Dopotutto, una ricerca che autorizzi a ridurre a 25 milioni le vittime della carestia provocate dall’insipienza e dalla corruzione umana, equivale a salvare idealmente la vita di 11 milioni di persone, che erano nate e che così escono vive dall’inferno di quel triennio. Nessuna ricerca su simili catastrofi è immune da un pregiudizio impolitico e per così dire umano, un tentativo postumo di attenuazione. E di anestesia, perché il solo ridurre una cifra tragica basta a rincuorare. Una cifra rivista è molto meno sconvolgente del semplice ribasso.
 

Alla fine, Yang fa le domande decisive. Perché è stato possibile tenere nascosto per mezzo secolo lo sterminio per fame di decine di milioni di persone? Perché la grande carestia non ha provocato, pur fra tante ribellioni stroncate, grandi disordini? Il potere totalitario riuscì a rendere impossibile ciò che era stato reso possibile quarant’anni prima a Mao e ai suoi compagni. “Mao Zedong è stato l’ultimo imperatore della Cina, l’ultima incarnazione dell’assolutismo monarchico” perfezionato nel totalitarismo. L’autore ricorre a von Hayek: “quando perseguiamo ideali sublimi con tutte le nostre forze, talvolta otteniamo risultati che sono l’esatto contrario di ciò per cui abbiamo lottato”. “Che si tratti delle autorità o della gente comune, io ritengo che nella Cina del nuovo secolo tutti sappiano nel profondo del proprio cuore che il sistema totalitario è arrivato al capolinea”.
 

P.S. L’autore di questa recensione invece avverte chi voglia rinfacciargli un lontano passato di illusioni e reticenze sul maoismo, che ne ha reso abbondantemente conto al pubblico e a se stesso per mezzo secolo, benché non sia mai abbastanza.

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