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The Messenger ha già chiuso e non è una sorpresa. Il giornale online era "troppo 2015"

Giulio Silvano

Il fallimento del sito va visto soprattutto come il risultato di un modello di business sbagliato che non si accorge della polarizzazione imperante o della domanda estetica del pubblico. L'industra dei media era scettica sul progetto ancora prima che partisse

Meno di un anno di vita per il giornale online che aveva l’alta ambizione del centrismo, The Messenger chiude dopo il lancio nel maggio del 2023. Il payoff era “Your source for trusted and unbiased news”, niente schieramenti, solo la verità. L’aveva fondato Jimmy Finkelstein, dopo aver venduto The Hill, giornale di Washington DC, incentrato sulla politica di palazzo che si trova sulle scrivanie dei deputati e nei ristoranti intorno al Campidoglio. Per The Messenger Finkelstein era riuscito a racimolare 50 milioni di dollari e ad assumere centinaia di giornalisti, pagati bene. Oltre alla vocazione centrista e al mantra del “non siamo schierati”, il giornale aveva l’ambizione di riportare i lettori a fidarsi delle news. Il modello andava controcorrente a quello contemporaneo: tanti, troppi contenuti, una home page che sembrava un rullo di informazioni di tutti i generi, e niente che potesse diventare condivisibile da una nicchia, da una bolla, qualsiasi bolla. Articoli e titoli generici con un’anima generalista senza la ricerca precisa di un’audience fedele che si potesse ritrovare nelle opinioni condivise (anche perché di opinioni ce n’erano pochissime). Pezzi presi da tabloid come il Daily Mail e riscritti in fretta e furia. Il giorno del lancio vennero pubblicati duecento articoli. La fame di viralità era troppo visibile e poco attraente per lo Zeitgeist. E poi troppe pubblicità pop up e un mood che il Washington Post aveva descritto come “troppo 2015”. “Per quanto sia triste, non è per nulla una sorpresa che The Messenger non abbia funzionato”, ha scritto la Cnn.

 

Il fallimento di The Messenger non va visto come parte della serie di licenziamenti che stanno colpendo l’industria delle news – il Los Angeles Times, Sports Illustrated e le centinaia di quotidiani locali che chiudono ogni mese – seppur un po’ di crisi generale va tenuta in considerazione. Ma esistono anche casi felici a bilanciare il sentore apocalittico: sia nuovi progetti, come Semafor, sia vecchie glorie, come il New York Times, che nel 2023 ha raggiunto il numero desiderato di dieci milioni di abbonati. Il fallimento di The Messenger va visto soprattutto come il risultato di un modello di business sbagliato che non si accorge della polarizzazione imperante o della domanda estetica del pubblico. “Chiunque conoscesse un minimo come funziona l’economia dei media, sapeva che sarebbe morto velocemente, tristemente e in modo spettacolare”, ha scritto Jim VandeHei, cofondatore di Politico e ceo di Axios. Anche l’egocentrismo, e le aspirazioni di grandeur di Finkelstein, che diceva avrebbe ottenuto dieci milioni di lettori al mese in cinque anni, vengono considerate cause del tracollo. “Mi ricordo un’epoca in cui ti sedevi davanti alla Tv, quando ero bambino con la mia famiglia, e guardavamo 60 minutes tutti insieme. O quando non vedevamo l’ora di metter mano sul nuovo numero di Vanity Fair. Quell’epoca è finita, e io voglio aiutare a farla rinascere”, diceva Finkelstein, ignorando le varie evoluzioni, sia stilistiche, contenutistiche che meccaniche, del news cycle. Ma più che a rifarsi agli anni d’oro della Tv, The Messenger sembrava ancora fermo all’epoca del clickbaiting selvaggio, quando Facebook era ancora cool, quando faceva ancora il buono e il cattivo tempo del traffico online. Ora Facebook è diventato sintomo di boomerismo e i bravi editor in chief sanno che è solo accessorio al numero di visualizzazioni di un articolo. L’industria dei media era scettica sul progetto ancora prima che partisse, e ora tutti dicono: te l’avevo detto. Forse sono contenti che per una volta non siano da incolpare i lettori, i social o l’intelligenza artificiale.

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