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Scosse di dissestamento tra giornali, social, IA e istituzioni. Il caso del Los Angeles Times

Giulio Silvano

La scorsa settimana centinaia di dipendenti del giornale hanno protestato in strada contro la notizia di licenziamenti che potrebbe ridurre il personale del 20 per cento. Il giornale di Los Angeles non è il solo a soffrire in America

Nel 2018 Patrick Soon-Shiong ha comprato il Los Angeles Times, il giornale più importante della west coast. Il medico sudafricano di origine cinese diventato miliardario brevettando medicine anticancro, azionista di Zoom e professore a Ucla, aveva l’obiettivo di arrivare a un milione di abbonamenti online in pochi anni. Voleva implementare una rapida transizione al digitale cercando di avvicinarsi ai numeri dei giganti della costa est come il New York Times (10 milioni di abbonati raggiunti a novembre) o il Wall Street Journal (quasi 4 milioni, tra carta e online). Ma le cose non stanno andando come sperava. Nel 2023 il giornale californiano ha perso il 4 percento degli abbonati, oltre a una preventivata diminuzione del 17 percento delle copie cartacee. L’obiettivo di Soon-Shiong di “adattarsi al mondo digitale” e di diventare un quotidiano autonomo che non ha bisogno dell’aiuto dei miliardari – come diceva quando ha comprato il giornale – non si sta realizzando. L’ha pagato 500 milioni e le perdite arriverebbero a oltre 50 milioni all’anno.

La scorsa settimana centinaia di dipendenti del giornale hanno protestato in strada contro la notizia di licenziamenti che potrebbe ridurre il personale del 20 per cento. Era la prima volta, nei 142 anni del giornale, che la redazione si svuotava per una protesta. E adesso altre importanti editor del giornale, assunti solo da qualche anno, se ne sono andati. Ma non è l’unica crisi che questo mese ha colpito il giornale.

A inizio gennaio il direttore, Kevin Merida, dopo meno di tre anni di servizio, si è dimesso. Durante il suo mandato il giornale ha vinto tre premi Pulitzer. Uno dei motivi dell’addio di Merida è stata la divergenza di opinioni con l’editore su come coprire la guerra in Israele. Dopo la risposta dell’Idf all’attacco di Hamas vari giornalisti, tra cui una trentina del LA Times, avevano firmato una lettera per chiedere che si usassero termini come “genocidio”, “aparthaid” e “pulizia etnica” per parlare del comportamento di Israele. Merida non era d’accordo e aveva evitato che questi reporter continuassero a occuparsi del conflitto, ma Soon-Shiong si era opposto. Non si sa per certo se le dimissioni di Merida abbiano a che fare con la perdita di lettori o con le discrepanze con l’editore. Il giornale di Los Angeles non è il solo a soffrire in un periodo in cui tra fake news, IA e social, molti giornali e riviste falliscono o sono costrette a tagliare l’organico. La rivista Sport Illustrated, beccata a scrivere articoli con l’IA, questa settimana ha annunciato un massiccio piano di licenziamenti. L’anno scorso negli Stati Uniti hanno perso il lavoro quasi 3.000 giornalisti e hanno chiuso 2,5 quotidiani al giorno. Si tratta soprattutto di quotidiani locali che lasciano scoperte vaste aree rurali minacciando la democrazia, lasciando intere cittadine senza una fonte autorevole di informazione. Ma senza andare nel Midwest, anche giornali come il Washington Post, di proprietà di Jeff Bezos, non se la passano benissimo. 

Anche Capitol Hill si è interessata ai tagli del LA Times. Un gruppo di deputati democratici ha scritto a Soon-Shiong per ricordargli che, “soprattutto in tempo di elezioni, il ruolo dei giornali nel provvedere a informazioni accurate e non di parte diventa ancora più vitale”. Aggiungendo che ridurre il numero dei reporter “potrebbe avere un impatto dannoso sulla qualità delle inchieste e dei servizi”. Hanno chiesto al proprietario di trovare altri modi per fare cassa e lui ha risposto: “Io ci ho investito centinaia milioni, fate qualcosa anche voi per aiutare gli organi di informazione”. Al momento sono circa 500 i giornalisti del LA Times, ma potrebbero ridursi a 400 già nelle prossime settimane, proprio nel pieno delle primarie repubblicane. 

In tutto questo molti sono spaventati dall’uso massiccio dell’intelligenza artificiale nella campagna elettorale, come il finto Joe Biden che questo fine settimana avrebbe telefonato a casa degli elettori del New Hampshire dicendo di non andare alle urne. Ci si potrà fidare delle fotografie condivise dai candidati? Dei video deepfake? Degli audio che viaggeranno su Facebook e TikTok? Ci si chiede se non sia troppo dare ai quotidiani il ruolo di argine alle falsificazioni degli algoritmi e agli alternative facts che controllano il ciclo delle notizie. Ma forse un ottimista vedrebbe questo momento come un’opportunità per le testate giornalistiche, un’occasione per riacquisire dignità smettendo di usare i social come un’agenzia stampa, e magari a lungo termine riconquistare i lettori.