verso il voto

No, le elezioni a Taiwan non saranno un referendum sulla guerra

La questione taiwanese è molto più complicata di così: c'entra l'identità e lo status quo. Ecco come distinguere le interferenze e la propaganda

Giulia Pompili

“Non è un segreto che Pechino abbia una preferenza fra i tre partiti”, dice al Foglio Vincent Chao, a capo degli affari internazionali del Partito democratico progressista, il cui candidato Lai Ching-te è stato finora sempre in testa ai sondaggi

Le prossime elezioni generali di Taiwan saranno le più seguite degli ultimi anni, soprattutto dai media internazionali. C’è una nuova rinnovata attenzione al tema che riguarda Taipei, non tanto per il processo democratico in sé quanto per i suoi rapporti con Pechino – che sin dalla fine della Guerra civile cinese rivendica Taiwan come proprio territorio anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata. L’interesse sulle eventuali conseguenze del voto di sabato, però, parte spesso da un fraintendimento di fondo, come se le elezioni fossero in realtà un referendum sulla volontà dei taiwanesi di essere di fatto “annessi” alla Repubblica popolare cinese, oppure di prepararsi alla guerra. Quella che il leader cinese Xi Jinping definisce da sempre – anche di recente, durante il discorso di Capodanno – una “riunificazione inevitabile”, senza mai escludere anche l’uso della forza per raggiungerla, è in realtà una questione ben più complicata non solo dal punto di vista delle relazioni internazionali (e quindi della competizione strategica con l’America), ma anche della politica interna. In realtà, sia Lai Ching-te, candidato del Partito democratico progressista (Dpp) attualmente alla presidenza con Tsai Ing-wen, sia Hou Yu-ih, candidato del partito nazionalista Kuomintang, sia Ko Wen-je, candidato considerato “indipendente” del Taiwan People’s Party, con diverse sfumature di significato sono tutti e tre per il mantenimento dello status quo.

 

 

Ciò che può cambiare, semmai, è il possibile atteggiamento di Pechino. Ma l’idea su un referendum tra guerra o no fa in realtà gioco alla propaganda cinese: “Non è un segreto che Pechino abbia una preferenza fra i tre partiti”, dice al Foglio durante un’intervista telefonica Vincent Chao, a capo degli affari internazionali del Partito democratico progressista, il cui candidato Lai è stato finora sempre in testa ai sondaggi. “Questa preferenza è andata perfino oltre questa volta, e funzionari cinesi hanno addirittura commentato direttamente sulla scelta del nostro candidato alla presidenza, Lai, dicendo che votare per lui sarebbe stato come votare per la guerra”. Lai Ching-te, che ha scelto come nome inglese William, è l’attuale vicepresidente di Tsai, ed è spesso definito dalla stampa di Pechino come un “piantagrane”. Il fatto, spiega Vincent Chao, è che secondo tutti i sondaggi la maggior parte dei taiwanesi – parliamo dell’oltre ottanta per cento  – è per il mantenimento dello status quo: vuol dire proteggere il sistema democratico e completamente autonomo di Taiwan.

 

 

La minaccia di una guerra per quella che la Cina definisce la “riunificazione” con l’isola non funziona più, “è controproducente”, dice Chao, e quindi ora Pechino sfrutta nuove tecniche, anche di interferenza del processo democratico. Venerdì scorso il procuratore generale di Taiwan, Hsing Tai-chao, ha detto in conferenza stampa che i pubblici ministeri taiwanesi stanno indagando su 2.938 casi di presunte violazioni della legge elettorale, e tra questi casi almeno 190 riguardano la violazione della legge anti-infiltrazione. E’ quella legge che punisce la collusione con potenze straniere per influenzare il voto, per esempio accettando denaro, usufruendo di viaggi scontatissimi o di altri vantaggi in cambio di sostegno politico. “Da una parte ci sono i casi su cui le procure stanno indagando”, dice Chao, “ma dall’altra c’è l’enorme quantità di disinformazione” che arriva per lo più dalla Repubblica popolare cinese, e che è più difficile da dimostrare come reato ma rischia di interferire lo stesso con il processo elettorale. 

 


Più che un referendum sulla guerra o meno, sull’indipendenza de facto o meno di Taiwan, si tratta “di osservare le sfumature”, dice il responsabile delle relazioni internazionali del Partito democratico progressista. “Sarà piuttosto un voto su chi i taiwanesi reputano più convincente nel mantenimento dello status quo di Taiwan”. La posizione del partito di governo è quella di mantenere questa situazione, di non provocare la Repubblica popolare cinese ma allo stesso tempo “per perseguire la pace non possiamo continuare a sperare nella buona volontà della Cina: bisogna essere chiari e trasparenti. Vogliamo continuare ad avere rapporti con la comunità internazionale e a partecipare alle organizzazioni internazionali. Avere il sostegno del resto del mondo significa anche costruire un sistema di deterrenza, che è l’unico modo per avere la pace in modo duraturo”, dice Chao. Gli ultimi giorni di campagna elettorale sono particolarmente impegnativi: durante il cosiddetto Super Sunday dell’altro ieri, la domenica prima delle elezioni, il candidato Lai ha definito le elezioni una scelta “tra democrazia e autocrazia”. Chao dice che il suo partito è piuttosto “fiducioso che le persone continueranno a sostenere il nostro governo”. Ciò che è importante è che sabato si voterà anche per rinnovare il Parlamento taiwanese, una questione più concreta di politica locale, e lì il Partito democratico progressista rischia di perdere la maggioranza: “Dobbiamo far capire alle persone perché è molto importante poter avere anche un Parlamento a nostro sostegno per proseguire la nostra azione”, dice Chao. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.