(foto EPA)

il racconto del conflitto

Quanto può resistere ancora Rafah. Hamas tiene in ostaggio anche venti cadaveri

Fabiana Magrì

I forni d’argilla attorno all’unico passaggio di Gaza, tra bombe e accuse reciproche con le Nazioni Unite

Tel Aviv. I video, le foto, le testimonianze che arrivano da Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, mostrano tendopoli, rifugiati e sfollati dal nord e dalla city che hanno lasciato le loro case a causa della guerra. Gente che si arrangia come può, costruendosi tabun, forni fatti di argilla, per cucinare. Il corrispondente del Financial Times dentro la Striscia conferma le denunce delle organizzazioni umanitarie e parla di “condizioni catastrofiche a Rafah”. I palestinesi, ripresi dai media, hanno riferito di sei morti in un attacco aereo sulla parte occidentale di Rafah, nel quartiere Tel Alsaltan, che avrebbe colpito una famiglia che si era rifugiata lì da Gaza City. Israele respinge al mittente le responsabilità, critica severamente le agenzie internazionali per non aver ancora condannato l’abuso da parte di Hamas delle zone umanitarie come aree di lancio di missili verso il territorio ebraico e il furto di beni di prima necessità destinato ai civili palestinesi. I quali iniziano a denunciare i soprusi degli uomini della fazione islamista con sempre minori inibizioni. Al quotidiano economico britannico, una donna palestinese, madre di cinque figli, ha detto: “Siamo passati da una scuola dell’Onu all’altra, da uno sfollamento all’altro e da una sofferenza a una ancora peggiore”. Ha raccontato di stanze in cui sono stipate fino a 70 donne e ragazze, che dormono su materassi stesi sul pavimento. Mentre gli uomini trascorrono le notti in rifugi di fortuna nei cortili.

 

Negli ultimi giorni il sole è tornato a scaldare le giornate autunnali sulla costa più orientale del Mediterraneo, ma la notte cala presto e le piogge torneranno a battere sull’enclave costiera e sabbiosa. Le infrastrutture sono già stressate oltre il limite delle capacità. I servizi igienici nei rifugi straripano. L’igiene è impossibile da preservare e infezioni e malattie sono in aumento. Da giorni i funzionari delle agenzie internazionali discutono di quella che è considerata l’ultima spiaggia per l’85 per cento dei 2,3 milioni di abitanti nella Striscia, già concentrati nel sud, schiacciati sul confine sigillato dall’Egitto. Alcuni rappresentanti dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, su iniziativa degli Emirati Arabi Uniti, hanno visitato ieri il valico di frontiera per “verificare in prima persona ciò che è necessario in termini di operazioni umanitarie”, ha detto l’ambasciatrice emiratina al Palazzo di Vetro, Lana Nusseibeh. Ai funzionari delle Nazioni Unite che denunciano gli assalti e i saccheggi della popolazione ai convogli umanitari, Israele risponde che “non ci sono restrizioni da parte nostra a beni come cibo, acqua e medicine. E non c’è alcun ritardo nelle ispezioni”. Il problema evidenziato dal portavoce del governo israeliano Eyal Levy è “il collo di bottiglia che si verifica a Rafah”. In altre parole, sositiene Levy, le agenzie internazionali non tengono il passo con la distribuzione. “Le Nazioni Unite devono fare meglio. Gli aiuti sono lì”, dice

 

L’esercito ha anche divulgato filmati, ripresi nel nord della Striscia a Shejaiya, in cui “membri di Hamas picchiano civili e rubano aiuti umanitari destinati a loro”, dirottando “con la forza” le forniture per assegnarle “ai loro agenti per uso personale”. Ma quello che succede al nord, dove le forze di Tsahal, secondo fonti militari, controllano ormai l’80 per cento del territorio è soltanto un’anticipazione di quanto accadrà a Rafah e nell’area di confine tra Gaza e il Sinai al termine delle operazioni che in questi giorni sono concentrate a Khan Yunis. Un destino inevitabile perché, ha fatto capire l’ex ufficiale dell'intelligence Elon Eviatar al canale israeliano in lingua inglese i24, “non si può chiudere la porta e lasciare aperta la finestra”. 

 

In un briefing per la stampa sentito dal Foglio, il portavoce Levy ha anche annunciato che “20 ostaggi israeliani sono stati uccisi da Hamas dal 7 ottobre durante la cattività” e che la fazione palestinese continua “a tenere in ostaggio i loro cadaveri”. Restano 137 vite da salvare. Tra cui, sottolinea il funzionario governativo, anche i fratellini Bibas, sul cui destino Israele non crede alla versione di morte di Hamas. Ma il tempo per riportare più connazionali possibili a casa sta per scadere. Lo fanno credere le testimonianze dei prigionieri sopravvissuti e rilasciati durante la prima tregua di fine novembre. A poco a poco, dopo aver parlato con i medici e con l’intelligence, adesso iniziano a diffondere le loro terribili esperienze anche ai media. Per ora privilegiando quelli locali, in lingua ebraica.

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