Una donna israeliana a un funerale nell'insediamento ebraico di Kfar Etzion, Cisgiordania (Foto di Lior Mizrahi/Getty Images) 

il reportage

Un piano di convivenza in Cisgiordania: mettere in salvo i palestinesi e sradicare Hamas

Micol Flammini

Nell’insediamento di Kfar Etzion si sentono parole inattese in mezzo ai tuoni, come pace o accoglienza dei palestinesi, mentre fuori tutti urlano: impossibile. L’idea di una confederazione in cui c’è terra per tutti

Kfar Etzion (Cisgiordania), dalla nostra inviata. L’autobus che parte da Gerusalemme arriva a Kfar Etzion superando sei cancelli gialli, sono le porte d’ingresso di ogni villaggio che si trova dietro la linea verde in Cisgiordania. Il cancello è il confine e il limite di queste bolle israeliane che vengono chiamate insediamenti. A Kfar Etzion, che si trova tra Betlemme e Hebron, si arriva alla fine e il suo cancello giallo non è diverso dagli altri, ma oggi si apre spesso e lascia entrare tutti coloro che vogliono partecipare al funerale di un soldato. Il cimitero è diviso in due, c’è la parte civile e quella militare, quest’ultima, dall’inizio della guerra a Gaza, è stata ingrandita. Due ragazzi che hanno appena iniziato il servizio militare non tolgono gli occhi da quei metri di terreno in più che si è conquistata la morte in breve tempo. Molte famiglie hanno qualcuno a combattere, Eliaz Cohen ha due figli in guerra, uno nella Striscia l’altro sul confine settentrionale. Il terzo è tornato da poco per una ferita. Diluvia a Kfar Etzion, la notte è arrivata presto preceduta dai fulmini, e Cohen dice che c’è tanto bisogno di acqua, perché qui si lavora la terra e prima del sionismo non c’era nulla. E’ un poeta, è nato e vissuto negli insediamenti israeliani, detesta i coloni estremisti: “Non è un problema di immagine, è un problema di morale e di ebraismo. Non puoi comportarti così, non puoi far male ai tuoi vicini palestinesi. Anche noi subiamo atti di vandalismo da parte degli estremisti, ma loro sono soltanto una minoranza, negli insediamenti si lavora per la pace”. Ha un suono stonato la parola pace detta qui, un suono stridulo che non ci si aspetta di sentire e che si confonde fra i tuoni del temporale.

    
Sembra un ossimoro se accostata al mondo, all’universo degli insediamenti che la comunità internazionale non riconosce, anche se tutto qui è inconfondibilmente israeliano. Bisogna andare a fondo, capirla meglio la pace vista da qui. Eliaz Cohen da anni fa parte di un’associazione dal nome esplicito: “Una terra per tutti”, che fa incontrare israeliani e palestinesi per pensare a come rendere la convivenza sicura. “Noi dobbiamo garantire la nostra sicurezza e quella dei palestinesi, abbiamo avuto un’idea nuova, va oltre la soluzione dei due stati, che non ha funzionato. Pensiamo a una confederazione sul modello dell’Unione europea, che tenga dentro tutti i popoli che vivono in quest’area. Uno spazio dai confini aperti, è inutile continuare a parlare di due stati divisi, non può funzionare su una terra che, passata la linea verde, è così mista”. E’ abituato a vedere volti scettici davanti a sé, facce incredule che esclamano senza il bisogno di aprire bocca: ma è impossibile. Si spiega: “Tutta la terra, dal fiume al mare appartiene a tutti. Anche la Germania e la Francia non hanno fatto altro che litigare e uccidersi prima di entrare nella stessa confederazione. Non pensiamo a una federazione sul modello tedesco o americano, ma a stati separati. Ciascuno con le proprie istituzioni, i propri primi ministri e presidenti, ma con una struttura per dialogare. Certo, tutto questo prima di sconfiggere Hamas non è possibile”. Eliaz dice che il sostegno per i terroristi della Striscia in Cisgiordania non è alto, e anche dentro Gaza è poca cosa.  Dopo il 7 ottobre, Eliaz Cohen ha parlato con persone vicine ad Abu Mazen, Fatah sa bene che Hamas e Jihad islamico vogliono farlo fuori, e il poeta ha cercato di convincere il presidente dell’Autorità nazionale palestinese che era arrivato il momento non soltanto di una condanna dell’attacco, ma di dire che il 7 ottobre era stato un atto contrario all’islam. “Stava per farlo, lo so per certo. Poi il Jihad islamico ha lanciato il razzo che è finito davanti all’ospedale, tutto il mondo ha accusato Israele, in Cisgiordania ci sono state forti proteste e Abu Mazen non l’ha più fatto”. 

  
Dall’insediamento di Kfar Etzion sembra chiaro che il futuro della Striscia non può essere israeliano, è un’opportunità per l’Autorità nazionale palestinese, ma almeno all’inizio dovrà esserci Israele a garantire la sicurezza, sul modello della zona b della Cisgiordania. E Gaza sarà una delle parti della confederazione che, confessa Eliaz, sarebbe stato bello intitolare ad Abramo, ma sono arrivati prima gli accordi, l’idea è sfumata e bisognerà ricominciare a pensare anche al nome. E la bandiera? Si penserà anche alla bandiera, perché dovrà pur esserci un vessillo comune come esiste quello europeo. Ma Cohen frena e ricorda che “prima bisogna sconfiggere Hamas, poi si penserà a tutto. Non esiste un accordo, ma c’è un piano. Noi – intende israeliani e palestinesi – sappiamo come farlo”. L’ambizione è tanto estesa che secondo Eliaz arriverà anche il momento di un esercito comune: “E’ ovvio che il nostro, Tsahal, ha già le capacità e l’esperienza e prima o poi anche i palestinesi saranno ammessi, ci vuole fiducia e capiranno che la minaccia nella regione è rivolta contro tutti noi e viene da Teheran”. Ma “prima bisogna sconfiggere Hamas”, che Eliaz definisce “una combinazione di sunniti che hanno preso i metodi dell’Iran”. E come si sconfigge Hamas? La risposta che viene in questo insediamento che come gran parte di Israele ha mandato i suoi figli a combattere è inattesa: “Mettendo al sicuro i civili”. Anche ora, la parola, civili, proprio come era accaduto con la parola pace, sembra confondersi tra i tuoni, arriva all’improvviso, risuona acuta in lontananza. “E’ una questione morale e di strategia. Dal primo giorno ho pensato che fosse il momento di fare qualcosa in grado di cambiare le cose a Gaza. E non è facile non maledire una guerra per un padre che ha mandato i suoi figli, che ogni giorno riesce a mantenere delle comunicazioni in modi sporadici, che ogni volta che la comunicazione si interrompe pensa che se fino a un secondo prima suo figlio stava bene, l’istante dopo potrebbe essere successo di tutto”, il pensiero va a quelle cinque tombe in più al cimitero di Kfar Etzion, che ogni genitore guarda con paura e rispetto. “Ma come tutti gli israeliani so che la guerra è l’unico modo per eliminare il demonio Hamas e bisogna prendersi cura degli abitanti di Gaza. Dallo Shabak mi hanno detto che hanno identificato circa centomila terroristi, gli altri sono civili e aiutarli è nostra responsabilità”. 

  
Ma la Striscia è un territorio asfittico senza vie di uscita, la guerra di Israele è in ogni metro quadrato di territorio, i confini sono il limite entro cui può muoversi la popolazione che finisce ammassata e spaventata in un territorio che è diventato una trappola, una scatola chiusa. Ancora un tuono, ancora una sorpresa, ancora un’idea che sembra arrivare sommersa da un cigolio di “impossibile”, “irrealizzabile”, “impensabile”. “Possiamo farcela, invece”, dice Eliaz probabilmente senza sapere che è la stessa frase che disse Angela Merkel quando decise di aprire le porte della Germania a un milione di rifugiati siriani. Eliaz vuole aprire le porte di Israele ai cittadini di Gaza, e l’impatto sarebbe ben più straordinario. “Nelle prime settimane della guerra, ero tra coloro che premevano affinché il presidente egiziano al Sisi si prendesse un milione e mezzo di civili. Lui ci ha risposto: prendeteveli voi. E io ho pensato: possiamo farcela”. Come? Dove? “David Ben Gurion avrebbe voluto che il Negev venisse popolato, era andato lui a viverci per primo, ma in pochi lo hanno seguito. Lì c’è posto per portare la popolazione di Gaza. E non va scordato che, senza i civili, per l’esercito israeliano sarà più semplice eliminare Hamas. Le prime volte che ho parlato con alcuni funzionari del governo e della sicurezza di questa idea, mi hanno detto che sarebbe stato impossibile. Qualcuno inizia a cambiare idea”. 

  
Kfar Etzion esiste perché tanti eventi nella storia di Israele non sono razionali. I primi pionieri erano arrivati negli anni Quaranta, avevano stabilito una fascia di insediamenti religiosi e di sinistra e Kfar Etzion in questa fascia era chiamata “la regina”. Dopo la dichiarazione di indipendenza del ’48, la regina cadde per prima, venne attaccata e subì un massacro simile al 7 ottobre: il primo massacro contro dei cittadini israeliani. Prevedendo che sarebbe arrivato l’attacco, donne e bambini erano stati portati via, chi rimase morì, anche chi si era arreso venne ucciso. Di Kfar Etzion rimaneva una comunità di vedove e orfani a chilometri di distanza. Molti erano sopravvissuti dell’Olocausto e avevano appena subìto un altro eccidio. Vent’anni dopo, durante la Guerra dei sei giorni, quegli orfani andarono a riprendere Kfar Etzion, non avevano dimenticato da dove provenivano, convinsero il premier Levi Eshkol che avevano il diritto di tornare nella terra in cui i loro padri erano stati massacrati. La storia di questo villaggio incapsula tutta la storia di Israele: “Non ci sono altri popoli espulsi dalla loro terra che sono tornati dopo una diaspora così vasta, una cultura così eterogenea e con una lingua morta”, dice Eliaz, che non disdegna la parola insediamenti, non ci vede nulla di sbagliato: “Sono nato in Samaria in un insediamento creato nel 1878, chiamato Petah Tikva, un nome che viene da Isaia, qui tutto è collegato. Esisteva prima che nascesse il movimento sionista di Theodor Herzl. Venne creato da ebrei ultraortodossi che uscirono da Gerusalemme per cercare terre da coltivare, la mia famiglia era partita dall’Europa, dalla Boemia in una di quelle ondate di Gush Emunim. Quello degli insediamenti è diventato poi uno stereotipo”. 

  
L’unica fermata dell’autobus di Kfar Etzion è un migunit, un rifugio pubblico, dentro aspettano due soldati, sono giovanissimi, hanno appena iniziato il servizio militare, se la guerra sarà breve non andranno a Gaza, se con il Libano non inizierà un conflitto, non andranno neppure lì. Eliaz Cohen li osserva. “Qui abbiamo deciso di non aspettare il Messia, ma di diventare ognuno di noi un Messia che redime se stesso. E c’è soltanto un modo per far finire la guerra – ripete di nuovo, scandendo le parole, ricordando che questo è il punto principale di tutti i suoi progetti – eliminando Hamas”. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.