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Tra virgolette

Le parole sono violenza per tutti tranne che per gli ebrei, contro i quali le violenze sono solo parole

Nei campus universitari e in molti altri luoghi, il discorso antisemita sconfina regolarmente in minacce, intimidazioni e vere e proprie violenze contro gli ebrei. E chi giustifica chiama in causa la "libertà d'espressione"

L’altro ieri i presidenti di Harvard, dell’Università della Pennsylvania e del Mit sono stati ascoltati davanti a una commissione. “A ciascuno è stato chiesto se l’appello al genocidio degli ebrei violasse le regole della loro università. Ognuno dei presidenti si è rifiutato di rispondere direttamente, insistendo sul fatto che tutto dipende dal contesto. Ecco il contesto: nei campus universitari e in molti altri luoghi, il discorso antisemita sconfina regolarmente in minacce, intimidazioni e vere e proprie violenze contro gli ebrei. Le regole universitarie e le leggi locali vengono intenzionalmente violate perché tutti sanno che le regole e le leggi sono applicate in modo selettivo. I liberali, nella tradizione di Thomas Jefferson e John Stuart Mill, amano paragonare la libertà d’espressione e il dibattito a un mercato. Lasciare che tutti esprimano le loro idee in una competizione pacifica; che tutti abbiano la stessa opportunità di ascoltare e giudicare. Ma intorno a noi si sta consolidando un’altra tradizione. In questa tradizione, la libertà d’espressione non è come un mercato”. “È come una battaglia. L’obiettivo non è illuminare, ma dominare. Gli avversari devono essere intimoriti, intimiditi e messi a tacere”. Inizia così l’articolo sull’Atlantic di David Frum, ex speechwriter del presidente americano George W. Bush, autore di numerosi saggi, tra cui i più recenti “Trumpocracy” e “Trumpocalypse”, secondo cui i progressisti che un tempo sostenevano che la libertà d’espressione è violenza, ora sostengono che la violenza è libertà d’espressione. La situazione, secondo Frum, è degenerata dallo scorso 7 ottobre, giorno dei massacri di Hamas in Israele. 


Dopo gli attentati terroristici di Hamas del 7 ottobre, abbiamo sentito molte storie di minacce alla libertà d’espressione dei filopalestinesi negli Stati Uniti. Lo stesso  Atlantic ha pubblicato alcuni resoconti a questo proposito. Tuttavia, a uno sguardo più attento, sta accadendo qualcos’altro. Le lamentele sul fatto che i discorsi a favore della Palestina sono stati sempre più limitati si rivelano essere violazioni di norme, regole e leggi che non hanno nulla a che fare con la libertà d’espressione come la definirebbero le persone di mentalità liberale. A New York, la scorsa settimana, i manifestanti pro Palestina hanno tentato di interrompere l’accensione dell’albero di Natale al Rockefeller Center. Per paura che si ripetano attacchi, ieri lo stato della California ha annunciato che la cerimonia di accensione dell’albero non si sarebbe più svolta in presenza di persone, e sarebbe stato un evento virtuale. La retorica tratta dalla tradizione di Jefferson-Mill viene ora utilizzata per difendere un comportamento che ha lo scopo di intimidire o danneggiare. Elementi importanti della nostra società si sono spostati dalla loro precedente affermazione secondo cui la libertà d’espressione può essere violenta, all’audace affermazione secondo cui la violenza dovrebbe essere considerata libertà d’espressione”, scrive Frum, avanzando alcuni esempi. “Pochi giorni fa, la York University in Canada – la seconda università più grande del paese – ha sospeso tre accademici che erano stati accusati penalmente per il loro attivismo anti Israele.

‘Dovreste difendere la libertà d’espressione e non la polizia orwelliana di Toronto’, ha twittato la scrittrice Naomi Klein, nata a Toronto. Qual è ‘la libertà d’espressione’ a cui si riferisce la Klein? I tre accademici arrestati avevano imbrattato con della vernice rossa l’ingresso di una libreria del centro, poi avevano incollato sulle vetrine del negozio dei manifesti recanti una citazione anti palestinese (inventata) che hanno attribuito (ingiustamente) alla proprietaria del negozio, un’importante donna d’affari ebrea”. Negli ultimi anni, i giornali americani hanno riportato centinaia di casi simili di vandalismo e aggressioni fisiche come forma di espressione anti Israele. “Proprio questa settimana – sottolinea From – la Casa Bianca e il governatore della Pennsylvania hanno rilasciato dichiarazioni di condanna per il moto di folla contro un ristorante di falafel a Filadelfia, di proprietà di un premiato chef e imprenditore di origine israeliana”. Tale comportamento minaccioso è diventato un triste leitmotiv negli Stati Uniti e in Canada. “A ottobre, i manifestanti anti israeliani di Harvard hanno preso di mira uno studente che ha cercato di filmarli con il suo cellulare, cosa che aveva il diritto di fare in un evento pubblico. I manifestanti lo avrebbero spintonato e afferrato nel tentativo di impedirgli di registrare l’incontro. Il 10 novembre, la Columbia University ha sospeso le sezioni locali di due gruppi pro Palestina dopo che entrambi hanno violato le regole dell’università e hanno continuato, nonostante gli avvertimenti, un evento che prevedeva ‘retorica minacciosa e intimidazione’”, racconta Frum.

E ancora: “Nei casi peggiori, gli attivisti hanno fatto degenerare le manifestazioni di piazza in scontri fisici che hanno provocato il ferimento di alcuni ebrei, e che hanno causato una morte violenta, quando un manifestante pro Palestina ha colpito un uomo ebreo al volto con un megafono, facendolo cadere a terra e facendogli sbattere la testa sul marciapiede”. Il riferimento è a Paul Kessler, un pensionato ebreo di 69 anni, ucciso lo scorso novembre a Thousand Oaks, a circa 60 chilometri da Los Angeles, mentre manifestava per Israele.

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