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l'analisi

Dopo gli ebrei, Israele: la stessa mostrificazione. E poi c'è l'antisemitismo inconsapevole

Yasha Reibman

Così l'Occidente recupera sentimenti che si pensavano scomparsi, illudendosi che la pace con il fondamentalismo islamico passi attraverso il sacrificio di Israele

Lo confesso, anche io sono un po’ antisemita. Sono stato per oltre dieci anni portavoce della Comunità ebraica di Milano e lavoro come psichiatra e psicoanalista. È stato scritto che l’antisemitismo riguarderebbe solo frange estreme della destra e della sinistra. Questa affermazione è vera e falsa allo stesso tempo. È vera se prendiamo in considerazione chi è antisemita in modo consapevole, quelle poche persone che apertamente odiano gli ebrei. Ma è falsa se consideriamo i fantasmi antisemiti che albergano in ciascuno di noi. L’antisemitismo ha una lunghissima storia e ha moltissime radici. 

 

Vi è l’antigiudaismo cattolico che ha educato generazioni di italiani, basti pensare che l’accusa di deicidio è stata stralciata solo col Concilio Vaticano II nel 1965, una decisione che ha bisogno di tempo per essere recepita pienamente a tutti i livelli della Chiesa. Basti pensare che ci è voluta la lucidità e sensibilità del pontificato di Ratzinger per abbandonare in modo netto la teologia della sostituzione. O che ancora pochi anni fa un vescovo utilizzava l’espressione “sinagoga di Satana”, quando la sinagoga è il tempio dove gli ebrei vanno a pregare. Vi è l’antisemitismo razziale, il cui apice è stato raggiunto con il nazismo e le leggi razziali italiane del 1938. Un passato con cui non abbiamo pienamente fatto i conti in Italia, non solo perché, per esempio, subito dopo la guerra il presidente del Tribunale della Razza poté diventare presidente della Corte costituzionale, ma – ed è cronaca di questi giorni – è evidente che basti un riaccendersi del conflitto in medio oriente e – voilà – vengono bruciate le pietre di inciampo a Roma (quelle lastre di ottone che si trovano nei marciapiedi e che ricordano singoli ebrei deportati durante la Shoah). Vi è poi l’antisemitismo “di sinistra”, à la Voltaire, che riconosceva diritti agli ebrei come individui, ma si scagliava contro gli ebrei come popolo e religione, nei quali intravedeva un pericolo: “Non possono essere una nazione dentro una nazione”. Da qui ha preso linfa l’approccio di Karl Marx alla questione ebraica. 


Gli ebrei,  scriveva A.B. Yehoshua, hanno svolto la funzione di schermo su cui proiettare paure e fantasmi della popolazione. Gli ebrei, un tempo persino isolati nei ghetti, sono pochi, improbabile conoscerne qualcuno di persona, non fanno nemmeno proselitismo, risultano sfuggenti, al punto da non rientrare nella dicotomia se siano un popolo o una religione. Capitalisti per i comunisti, pericolosi bolscevichi per fascisti e nazisti. Per gli uni e per gli altri, gli ebrei sono dediti a tramare qualche complotto. Poco importa che gli ebrei abbiano dato un tributo di sangue immenso nel Risorgimento e nella Prima guerra mondiale, degli ebrei non ci si può fidare. Yehoshua si illudeva che, diventando israeliani, finalmente gli ebrei potessero essere riconoscibili e giudicabili non in modo astratto, ma aveva forse sottovalutato la profondità delle forze in gioco. I filoni dell’antisemitismo occidentale si sono intersecati nei paesi arabi con l’antisemitismo islamico in uno scambio reciproco. Ci piace la favola di un’età dell’oro in cui musulmani ed ebrei vivessero in armonia, da bravi vicini di casa. La verità è che nei secoli passati, a periodi di relativa tranquillità, si sono intervallati puntuali razzie e pogrom contro gli ebrei anche nei paesi arabi e questo molto prima che nascesse lo Stato di Israele. Il moderno fondamentalismo islamico – per esempio quello dei Fratelli musulmani – ha dato spazio solo ai versetti del Corano più ostili agli ebrei, basta leggere la Carta fondamentale di Hamas. A sua volta il fondamentalismo islamico si è imbevuto nell’antisemitismo europeo, importandone testi e temi. I “Protocolli dei Savi di Sion”, un falso libello ideato dalla polizia zarista, gode tuttora di buone vendite nel mondo arabo. Da molti anni assistiamo anche a un’importazione in Europa di temi antisemiti provenienti dai paesi arabi. 

Spesso viene detto che criticare il governo di Israele non corrisponda a essere antisemiti. Vero, sottoscrivo. Bisogna però vedere quali “critiche” si fanno. C’è chi accusa Israele di un peccato originario, addirittura di essere nata come emanazione del colonialismo occidentale (con buona pace della lotta del movimento sionista contro la Gran Bretagna). Come per gli ebrei nei secoli passati, Israele funge anche in questo caso da capro espiatorio. Si arriva così al paradosso che ben sintetizzava Martin Luther King dell’antisionismo come sinonimo di antisemitismo, quello di immaginare che ogni popolo avesse diritto a una terra, tranne proprio gli ebrei. Vi è infine chi accusa Israele di voler sterminare i palestinesi, di voler compiere un genocidio, tradotto in modo esplicito Israele sarebbe il nuovo nazismo. I conti però non tornano, non solo perché non vi sono camere a gas, né forni crematori, né fosse comuni, ma anche perché, per esempio, la popolazione nella sola Gaza è passata da 200 mila nel 1948 ai 2 milioni attuali. Questa non è una pulizia etnica. Eppure contro ogni evidenza fattuale questo paragone viene fatto e non solo dagli estremisti. Vignette sui giornali in questi anni, ma anche in queste settimane hanno giocato sul parallelo. Vi è un perverso piacere a poter dire che le vittime di ieri sono i nuovi nazisti, che le parti si sono rovesciate. Questo permette ai palestinesi di poter rappresentare il ruolo della vittima.

 

Questa immagine viene scalfita quando  il 7 ottobre – dopo che da 17 anni non c’è un centimetro di terra occupata a Gaza, dopo che negli ultimi anni sono sempre di più i palestinesi di Gaza che lavorano in Israele, dopo che i malati più gravi di Gaza sono puntualmente curati negli ospedali israeliani – i terroristi irrompono dentro Israele e a sangue freddo e in modo pianificato sterminano uno per uno, bambini compresi, gli abitanti pacifici e pacifisti di diversi kibbutz e i ragazzi del rave. Aver squarciato il ventre a una donna per ammazzarle davanti agli occhi il feto, aver ucciso un neonato mettendolo vivo in un forno, aver stuprato le ragazzine davanti ai genitori prima di ucciderli, aver rapito bambini di 9 mesi, 2, 3, 4, 6 anni e tenerli tuttora in ostaggio: tutto questo orrore dura un battito di ciglia, turba i nostri pregiudizi, che in quanti pregiudizi sono rigidi. Il giorno dopo “i palestinesi” restano vittime (senza distinzione tra terroristi e gente comune), perché oramai quello è il loro ruolo. Vittime esasperate dalla propria condizione e mai pienamente responsabili delle proprie azioni. Una condizione eternamente adolescenziale, nella quale facilmente possono riconoscervi gli adolescenti occidentali. “I palestinesi” restano vittime anche quando a Milano – e in Europa rappresentano due volte la categoria, in quanto palestinesi e in quanto immigrati – nel corteo scandiscono in coro di voler “uccidere gli ebrei”. O quando chiedono di “liberare la Palestina dal fiume al mare”, cioè cancellando Israele. Vittime che si trasformano in partigiani, poiché il ruolo di Israele resta quello dell’oppressore, peggio, quello del nazista. E se Israele prova a colpire Hamas, sicuramente intende invece compiere uno sterminio di tutti i palestinesi; se invita gli abitanti del nord di Gaza a spostarsi a sud per ridurre le vittime civili sicuramente sta tramando qualcosa; se rifiuta di rinforzare Hamas facendo passare elettricità e viveri, ma lasciando che possano arrivare dall’Egitto (che confina al sud di Gaza) Israele vuol compiere un genocidio.

 

E se ancora non c’è una pace, non sarà perché a qualcuno conviene che sia così? Non sarà soprattutto perché Israele ha lavorato nell’ombra perché non avvenisse? Poco importa che la pace fosse apparecchiata, le delegazioni avessero concordato tutto nei particolari e poi a Camp David nel 2000 all’ultimo minuto il leader palestinese Yasser Arafat avesse deciso di non firmare con lo stupore dell’allora presidente statunitense Bill Clinton. Poco importa che Arafat scendendo dall’aereo che lo riportava a Ramallah mostrasse alla folla le dita a V e che pochi mesi dopo facesse scoppiare la seconda Intifada. Per chi è dominato dall’idea che lo stato ebraico ordisca complotti, Israele deve aver fatto qualcosa per spingere Arafat a questa scelta. Poco importa che a Intifada in corso, il primo ministro israeliano proponesse un nuovo accordo di pace a Taba, puntualmente respinto da Arafat. Israele trama contro la pace, per impossessarsi dei territori intende sterminare i palestinesiVi è una mostrificazione di Israele,  lo stesso meccanismo che hanno subito gli ebrei nei secoli passati accusati, per esempio con l’accusa di bere il sangue dei bambini cristiani. Lo erano gli ebrei ieri, lo sono gli israeliani oggi: mostri. Ecco i “nazisionisti”. Questa accusa consente agli europei di sentirsi un po’ sgravati dal peso della colpa per aver compiuto o per aver lasciato compiere la Shoah. Si stanno discolpando nonni e bisnonni, è come se si dicesse loro “non vi preoccupate, gli ebrei sono davvero cattivi”. Consente di tener sotto controllo l’angoscia per il futuro, illudendoci che, sacrificando Israele, il fondamentalismo islamico vivrà in pace con il mondo occidentale. Tutto questo avviene spesso in modo inconsapevole.

 

Il vignettista che anni fa ritraeva un Gesù bambino palestinese che vede arrivare un carro armato con la stella di Davide ed esclama “vogliono ammazzarmi di nuovo” non è consapevolmente antisemita, ma senza rendersene conto rimette in scena l’accusa di deicidio, riattualizzandola. La stessa operazione viene compiuta oggi da chi fa circolare l’immagine della madre palestinese che guarda il volto del giovane deceduto e accanto il dipinto della Madonna che ha lo stesso atteggiamento verso il Cristo morto. O dalla recente vignetta in cui il primo ministro Netanyahu sarebbe il nuovo Erode. Sono immagini sedimentate in noi e alle quali attingiamo in modo automatico. Vignette, singole frasi nascoste in articoli autorevoli, meme sui social – al di là della consapevolezza di chi le propone – solleticano sentimenti che albergano nel profondo di ciascuno. D’altra parte sarebbe illusorio pensare che questo fiume dell’odio e della diffidenza verso gli ebrei potesse essersi inaridito di colpo. Le mostre, le conferenze, i “mai più” ripetuti possono svuotare una tale piena? Si tratta di un fiume carsico pronto a riemergere. Solo una piena consapevolezza dei mostri presenti in ciascuno di noi, me compreso, può consentirci di tenerli a bada e di non lasciar che siano questi a prendere il sopravvento e comandarci – facendoci ricadere in automatismi o al contrario paralizzandoci (per esempio da parte di università e associazioni scientifiche che, per il timore di schierarsi, hanno finora persino evitato di chiedere alla Croce Rossa Internazionale federata con la Mezza Luna Rossa di andare a visitare gli ostaggi nelle mani di Hamas e Jihad) – solo così potremo  affrontare con la necessaria pacatezza qualcosa che deve turbarci e che richiede lucidità: la guerra.

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