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l'analisi

Il vittimismo ideologico sul razzismo spiega molto delle rivolte di oggi nei campus

Giulio Silvano

Dal caso del professor Kendi ai “Queer for Palestine”: così i movimenti di lotta per le minoranze si sono trasformati in apologia per Hamas

I cartelli “Queer for Palestine” alle manifestazioni europee e americane sono quelli che colpiscono di più, vista la qualità dei diritti Lgbtq nei paesi musulmani. E’ famoso il gay pride di Tel Aviv, ma mai si è sentito parlare di quello di Gaza City. “Polli per Kentucky Fried Chicken”, ha risposto qualcuno, “Mucche unite per McDonalds”. Il processo di vittimizzazione da campus universitario riesce a collezionare da anni una serie di battaglie, arrivando a creare una melma di cieca intransigenza, di etichette e di slogan, in difesa delle minoranze. Tutte le minoranze tranne gli ebrei. Una deputata americana dell’ala radicale chiamata The Squad, Cori Bush, ha detto che bisogna fermare l’apartheid israeliano, sottolineando come “la lotta dei neri e dei palestinesi sia interconnessa”.

C’è una storia che, pur partendo da un’altra prospettiva, mostra in parte gli effetti applicati di questo cortocircuito che, più che propriamente ideologico, sembra guidato da un manicheismo elementare che cerca di accomunare tutte le vittime (purché queste non siano israeliane). Dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis, nel 2020 il movimento Black Lives Matter ha raggiunto il suo apice. Manifestazioni, scontri, e nascita di nuovi personaggi, nuovi esperti che potevano spiegare bene la questione razzista nell’epoca contemporanea. Uno di questi è stato Ibram X. Kendi, professore universitario che aveva scritto un libro diventato bibbia di chi voleva partecipare a Blm: Come essere antirazzista. Il libro prima della morte di Floyd non aveva venduto molto

 

Le istituzioni volevano aggiornarsi, fare qualcosa per il dibattito in corso, mostrarsi impegnate a sconfiggere i rimasugli del segregazionismo e così la prestigiosa Boston University fondò il Center for Antiracist Research (Car), il cui obiettivo è “creare una società antirazzista che assicuri l’eguaglianza razziale e la giustizia sociale”. A guidarlo fu chiamato proprio Kendi, che strutturò il centro intorno alla sua visione, cioè: non c’è neutralità nello spettro del razzismo. “Questa è la missione della mia vita”, disse quando prese la guida del Car, e in effetti per tutta la vita aveva studiato e aveva lavorato nel settore accademico sempre più à la page degli African-american studies. “O si avvalla l’idea di una gerarchia razziale, e si è razzisti; o quella dell’uguaglianza razziale, e allora si è antirazzisti”, scrive Kendi nel suo bestseller, “lo spazio intermedio, sicuro, del ‘non razzista’ non esiste. La rivendicazione di una neutralità ‘non razzista’ è una maschera del razzismo”. Dall’altra parte, a destra, si attaccava invece la critical race theory – teoria secondo la quale c’è equità sulla carta, ma non nella pratica, cioè il razzismo è sistemico. Con Blm, Kendi è diventato una superstar dell’antirazzismo militante.

 

Alla guida del centro Kendi è riuscito a raccogliere 55 milioni di dollari in meno di tre anni. Furono create fellowship per intellettuali e artisti antirazzisti. Ma, dopo che a settembre metà del personale è stato licenziato e alcuni si sono lamentati della gestione “culturale e finanziaria”, l’università ha lanciato un’inchiesta formale per capirci qualcosa di più. Si parla di lavori sottopagati, sfruttamento dei dipendenti, incapacità di riuscire a produrre risultati di ricerca soddisfacenti e mala gestione di 43 milioni arrivati tramite le donazioni. 

 

Eroe o mitomane? Vittima dell’ossessività della woke culture o furbone capace di cavalcare l’onda del senso di colpa bianco dei progressisti? Accademico imbrigliato suo malgrado nei meccanismi burocratici delle no profit o celebrità megalomane che ha sfruttato il momento caldo di Blm? Chi ha lavorato con Kendi al Car dice che l’obiettivo del centro fosse irrealistico, che c’erano troppi soldi arrivati troppo velocemente, e che in effetti Kendi non aveva mai dovuto gestire niente prima di allora, che non avesse esperienza da manager. Il personaggio Kendi è interessante, non solo in quanto prodotto dell’ondata di intellettualizzazione di Blm, ma anche per l’atteggiamento da guru intransigente che sembra oggi la cifra necessaria per avere una presenza nel dibattito pubblico, come si è già visto con il #MeToo: o con noi o contro di noi. 

 

Il sito personale del professore è un monumento autoprodotto ai suoi successi. Il primo titolo che mostra è quello di MacArthur “Genius” Fellow, e poi di vincitore di un National Book Award. La lista di libri scritti riempirebbe un’intera sezione “razzismo” di qualsiasi libreria indie, quasi testi self-help movimentisti, che partono dal suo Come essere antirazzista, Come crescere un antirazzista, Come essere un giovane antirazzista, etc. E poi libri per bambini, Buonanotte razzismo, Bebè antirazzista, quel tipo di prodotto che fomenta il buonsenso contro quello che viene visto come un lavaggio del cervello delle nuove generazioni. Da sinistra a Kendi sono sempre state rimproverate le ospitate a pagamento e le conferenze private con generosissimi gettoni di presenza. E poi le sue stesse teorie, definite troppo semplicistiche: il professore afroamericano Tyler Austin Harper ha scritto sul Washington Post che il “vero danno della filosofia di Kendi sulla cultura americana si vede nel modo in cui ha trasformato parole come ‘razzismo’ e ‘suprematismo bianco’ in termini banali, usati quotidianamente. La marcia su Charlottsville”, che nel 2017 ha riunito neo-nazisti e Kkk, “è suprematismo bianco, ma lo è anche chiedere ai neri di presentarsi in orario alle riunioni su Zoom. Claude Lévi-Strauss parlava di ‘significanti flottanti’”, cioè termini che perdono ogni valore, scrive Harper. Un po’ come quando Matt Damon osò dire, scatenando l’ira, che “c’è una differenza tra una pacca sul culo o lo stupro o le molestie sui minori”.

 

Secondo molti studiosi di una sinistra che non si appoggia al wokismo tout-court, dire che tutto è razzismo uccide i casi in cui si tratta di vero razzismo.  Sul Wall Street Journal un altro accademico, David Decosimo, che insegna etica alla stessa Boston University, vede già la creazione del centro come un problema che va oltre il ruolo di Kendi, è un segnale che le università “sono invischiate in una isteria culturale, sottomettendosi all’ideologia”. Alla BU, dice Decosimo, dopo l’arrivo di Kendi molti dipartimenti si sono piegati alle sue teorie sull’antirazzismo, con modifiche dei corsi di studio. Il dipartimento di sociologia avrebbe annunciato che “suprematismo bianco e razzismo erano pervasivi” dentro lo stesso corpo insegnanti, nel dipartimento di letteratura il programma di studi è stato rivisto, con letture da assegnare agli studenti prodotte da “scrittori marginalizzati o che si identificano con una minoranza” e imponendo che qualsiasi materiale proveniente da autori “bianchi o eurocentrici” venisse analizzato “attivamente tramite una lente anti-razzista”. L’Università è anche arrivata ad annunciare che entro il 2023 si sarebbe impegnata ad assumere almeno il 50 per cento di personale “nero, indigeno o di una minoranza”. Stile Hollywood.

 

La BU nel 2020 ha deciso di inserire, con un esplicito riferimento a Kendi, l’antirazzismo come suo valore fondante. Questo preoccupa molti membri della facoltà, e in generale accademici di tutto il paese, che vedono nella pervasività ideologica improvvisa un danno all’istituzione universitaria in sé. Molti hanno paura a parlare, con il terrore di essere rimproverati di stare col nemico. Dopo le accuse e i licenziamenti dentro il Car, nonostante l’investigazione, il presidente ad interim dell’università di Boston ha detto che “continua ad appoggiare e ad avere fiducia nella visione del dottor Kendi”. All’investigazione l’accademico-star ha risposto che è deluso dai giornalisti che ne parlano, perché è un segno di razzismo: “L’idea di un leader nero corrotto che gestisce un’organizzazione disfunzionale è così radicata che i reporter non hanno bisogno di prove”. Nel frattempo un libro di Kendi diventerà una serie Netflix.

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