(foto Epa)

L'analisi

Cosa è andato storto nel progetto di Costa per risollevare il Portogallo

Marcello Sacco

Il premier portoghese ha sistemato l’economia e gli equilibri della sinistra, poi sono iniziati i guai con la corruzione e gli interrogatori in TV. L’occasione per le destre illiberali

Le dimissioni del socialista António Costa, il 7 novembre, chiudono un ciclo della politica portoghese iniziato con le elezioni legislative del 4 ottobre 2015. Il Portogallo era stato governato per quattro anni da un’alleanza conservatrice di socialdemocratici e popolari che, avendo nel 2011 ricevuto un prestito di 78 miliardi da Fmi-Bce-Ue, per i tre anni successivi avevano dovuto eseguire i tagli richiesti dalla troika. Bisognava mettere “i conti a posto”, si diceva, però nel 2014 il deficit aveva superato il 7 per cento e il debito viaggiava oltre il 130 per cento del pil; il tasso di disoccupazione superava il 14 per cento e il salario minimo nazionale era sotto i 500 euro lordi. Oggi Costa lascia un Portogallo che registra deficit vicini allo zero, il debito scenderà sotto il 100 per cento del pil già dall’anno prossimo, quando il salario minimo salirà a 820 euro, mentre la disoccupazione è intorno al 6 per cento. 

Certo, questa è la macroeconomia, dicono i critici, ma poi c’è la microrealtà quotidiana: un sistema sanitario  che scricchiola, i trasporti che non vanno, le case che non si trovano, salari ancora al di sotto della media europea, medici in sciopero perché vogliono aumenti del 30 per cento e professori in sciopero perché rivogliono oltre sei anni di stipendi arretrati. Chi glielo rinfaccia gli rinfaccia appunto i conti troppo giusti, la passione per il pareggio di bilancio, la cosiddetta “ossessione del debito”. Eppure, sia per Costa sia per i suoi ministri delle Finanze, a cominciare da quel Mário Centeno che si guadagnò l’epiteto di Super Mário in seconda (dopo Draghi), diventò anche presidente dell’Eurogruppo e oggi è governatore del Banco de Portugal, l’idea era chiara fin dall’inizio: ridare respiro all’economia nazionale strozzata dalla crisi dell’euro, ma sempre nel rispetto dei parametri dell’Ue e degli impegni presi a livello internazionale.

Le elezioni del 2015 per Costa erano andate maluccio, con il Ps al secondo posto e uno striminzito 32 per cento. Ma la destra era al 36 e provò anche a formare un governo, che cadde al primo appuntamento in Parlamento, dove la sinistra era maggioritaria, sebbene frammentata. Costa intanto tesseva l’alleanza con comunisti, Blocco di sinistra e Verdi per un’alternativa degli sconfitti, come oggi potrebbero fare i liberali in Polonia o gli stessi socialisti in Spagna. Ma se il compagno Pedro Sánchez, dall’altro lato della frontiera, oggi baratta amnistie per voti in aula, Costa seppe salvaguardare diversi punti fermi. Prese Pedro Nuno Santos, un “giovane turco” del Ps che negli anni della troika aveva gridato “non paghiamo!”, e gli diede la delega ai rapporti con il Parlamento, per un dialogo costante con le sinistre più radicali. Ma mise anche in chiaro che gli impegni con l’Ue e la Nato non andavano toccati. Complice riottoso di quella fase fu un presidente della Repubblica profondamente conservatore, il socialdemocratico Aníbal Cavaco Silva, che non avrebbe mai immaginato di dover concludere la sua lunga carriera nominando un governo con i comunisti “fiancheggiatori”. Esigeva garanzie.

Quel patto lo chiamarono “geringonça”, che vuol dire trabiccolo, perché pareva sempre sul punto di sfasciarsi e invece fu l’unica soluzione di governo a durare per l’intera legislatura. Il secondo esecutivo Costa, sempre minoritario ma più forte, non firmò accordi di governo e attraversò una pandemia navigando a vista e dialogando con tutti: con il centrodestra per le impopolari misure anti Covid e con le sinistre per le misure sociali. Ma cadde su una Finanziaria che a sinistra, ancora una volta, avrebbero voluto più generosa. Alle urne, il 30 gennaio del 2022, gli elettori diedero ragione a Costa e gli regalarono la sua prima maggioranza assoluta. Fino al 2026 sarebbe stata una passeggiata, e invece sono cominciati i grattacapi.

Ai portoghesi non bastava più la cancellazione  delle politiche di austerità più superficiali. Nel dibattito politico si vagheggiavano crescite del pil a due cifre e si usavano i soliti “macronumeri” di economie rivali che urgeva emulare. Intanto il malcontento popolare mal sopportava i casi di ministri o sottosegretari costretti a dimettersi in seguito a nomine opache e indennizzi milionari. L’opposizione più dura l’hanno fatta le televisioni, con ore e ore di diretta dalle sedute delle commissioni parlamentari d’inchiesta in cui questo o quel giovane e brillante ministro o manager di stato raccontava, in estenuanti “interrogatori”, come venivano spesi i soldi pubblici per salvare aziende pubbliche che però quasi nessuno voleva mai privatizzare. Campionessa di audience è stata la commissione sulla gestione della compagnia di bandiera Tap, nazionalizzata durante la pandemia e ora in procinto di essere venduta (ma ormai chissà quando). Da qui sono passati proprio l’ex giovane turco Pedro Nuno Santos, nel frattempo promosso a ministro delle Infrastrutture per poi dimettersi e farsi sostituire da un altro astro nascente, quel João Galamba che martedì è finito sul registro degli indagati assieme al capo di gabinetto del premier, Vítor Escária, e a un ex ministro dell’Ambiente, João Pedro Matos Fernandes.

Le presunte irregolarità, in questa inchiesta, riguarderebbero proprio due investimenti strategici nella transizione verde: l’idrogeno a Sines, nel sud, e le miniere di litio scoperte a nord, nella regione del Trás-os-Montes. Qui si erano svolte valutazioni d’impatto ambientale apparentemente accurate per cercare di andare incontro a una popolazione che  si oppone quando l’industria estrattiva si installa in cortile. Ma tra gli inquisiti c’è anche il direttore dell’Agenzia  per l’ambiente, responsabile di quelle valutazioni. C’è quindi da aspettarsi una forte ostilità a qualunque progetto innovativo futuro.

Quanto ad António Costa, il suo diretto coinvolgimento in appalti irregolari, al momento, è solo una vaga ipotesi contenuta in un comunicato della Procura. Su di lui indagherà la Corte suprema, quanto basta ad aprire una pagina politica nuova in cui le destre, specie quelle illiberali, potrebbero assumere un protagonismo finora inedito in Portogallo. Se poi l’inchiesta dovesse rivelarsi un castello di carte, sarà un mortale colpo d’immagine anche per il potere giudiziario.

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