L'unità di Israele non è una questione politica

Micol Flammini

Nel Likud c'è chi è pronto a sostituire Netanyahu e gli alleati occidentali parlano molto con Gantz e con Lapid. Ma ogni decisione sul campo viene presa in modo condiviso, c'è soltanto una nota che stona: il pericolo Ben-Gvir. La risposta a Nasrallah, tra meme palestinesi e le verità sul bunker 

Il dopo Benjamin Netanyahu è un argomento molto discusso dentro e fuori Israele. Secondo Politico, il presidente americano, Joe Biden, quando ha salutato il premier israeliano durante l’ultima visita, lo ha incoraggiato a contemplare l’idea di istruire un sostituto, perché Israele ha bisogno di una leadership  forte e condivisa. I sondaggi non sono a favore di Netanyahu, la sua discesa era iniziata già a luglio, quando Israele era alle prese con le proteste  e non avrebbe  immaginato di doversi rimettere l’uniforme in seguito a un massacro. Bibi non piace più e non perché qualcuno, tra i leader internazionali e i cittadini di Israele, pensi che la brutalità compiuta da Hamas sia stata causata dalla sua politica, ma perché appare debole, divisivo e un paese in guerra ha bisogno di altro: l’esempio ucraino di Volodymyr Zelensky, che secondo alcuni giornali israeliani potrebbe arrivare  a Gerusalemme la prossima settimana, insegna quanto la leadership sia essenziale alla resistenza. 

Dentro al Likud circola una frase mai pronunciata prima: Bibi è finito. L’opposizione conta i parlamentari del partito del premier  che potrebbero sostenere un voto di sfiducia, sono una decina, ma la regola vale per tutti: bisogna aspettare la fine della guerra e fino a quel momento, Bibi è il leader  di Israele. E’ lui a decidere e ieri ha rifiutato la pausa dei combattimenti proposta dal segretario di stato Antony Blinken: “Israele rifiuta un cessate il fuoco che non includa il rilascio dei nostri ostaggi”. Così la pensa anche il ministro della Difesa Yoav Galant, che fino a qualche mese fa litigava furiosamente con il primo ministro e si era anche dimesso in contrarietà con la riforma della Giustizia. Era un altro Israele, altre priorità. Ma così la pensa anche Benny Gantz, il leader del partito Unità nazionale che è entrato nel governo quando è iniziata la guerra. Di questo governo composto dal Likud e dall’estrema destra, Gantz era un contestatore acerrimo, con Netanyahu ha già convissuto, ne è stato ministro della Difesa, ma la sua decisione di entrare a far parte dell’esecutivo è stata un atto di responsabilità. Adesso Gantz, assieme al premier e a Galant, fa parte di un gabinetto speciale di guerra che si occupa di tutto quello che riguarda il conflitto. La posizione di Netanyahu riguardo al cessate il fuoco è quindi condivisa e non è per questo che i leader stranieri cercano premier altrove, piuttosto parlano con Gantz e con Yair Lapid, il leader del partito di centro sinistra Yesh Atid, perché vedono Netanyahu come un leader infragilito e vogliono assicurarsi che dopo di lui ci sarà continuità. 

Quando il primo ministro ha presentato alla sua coalizione l’accordo per far entrare Gantz nel governo, c’è stata soltanto un’opposizione, l’uomo che più di tutti preoccupa tanti israeliani e gli alleati di Israele: Itamar Ben-Gvir, il ministro della Sicurezza nazionale, che da aprile ha avuto l’autorizzazione a costituire un nuovo corpo di polizia che risponda ai suoi ordini. Fu uno scambio: Bibi, per calmare le proteste, decise di fermare la riforma della Giustizia, ma per placare Ben-Gvir gli mise in mano degli uomini armati. Un altro Israele, altre priorità, gli stessi pericoli.  Questa settimana, il ministro della Sicurezza nazionale si è fatto riprendere mentre distribuiva  pistole e fucili alle squadre di sicurezza. Lo ha fatto durante un evento pubblico in cui le armi venivano messe nelle mani anche dei civili di Bnei Brak ed Elad, città dominate dall’estrema destra religiosa. Gli Stati Uniti, che stanno contribuendo all’arsenale di Israele, hanno detto che non forniranno più armi, se queste devono andare nelle mani dei civili e se verranno distribuite come trofei. Diversi israeliani, dopo aver visto i video del ministro in cui annunciava che con una pistola si salva una vita e con un fucile si salva un intero edificio, hanno detto di non sentirsi al sicuro. A Israele mancano fucili e gli Stati Uniti hanno minacciato di fermare un ordine di ventimila armi, sbloccando la trattativa quando l’esercito si è impegnato ufficialmente a fare in modo che saranno destinate  soltanto a soldati e polizia. Il ministro è  visto come un pericolo interno per Israele, in grado di aumentare la violenza tra i coloni,  e si somma a tutti i rischi  esterni, che per ora appaiono meno uniti di quanto dicono di essere. 

Ieri i media israeliani non hanno trasmesso il discorso del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, dicendo di non voler dare spazio alla propaganda del gruppo di miliziani sciiti. Nasrallah si è mostrato mentre parlava davanti a una folla di bandiere, secondo i servizi israeliani era nascosto in un bunker, dove vive dal 2006. Nasrallah dopo il discorso si è trasformato in un meme, non soltanto in Israele, ma anche tra i palestinesi che lo hanno ritratto con la divisa di Tsahal, oppure ricoperto di cetrioli per la sua frase “tutte le opzioni sono aperte” e le parole “opzioni” e “cetrioli” suonano simili in arabo. Dal Libano, contro Israele, arrivano razzi, e continueranno ad arrivare. La strategia di Israele contro Hezbollah è anche comunicativa e punta a far vedere che non hanno voglia di aiutare Hamas. Può sembrare  pericolosa, provocatoria. Ma anche questa, nella politica israeliana, è una politica condivisa. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.