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l'editoriale del direttore

La pace si difende con la forza. Manifesto di una nuova stagione

Claudio Cerasa

Sostenere le democrazie assediate, anche con le armi, e scommettere sulla deterrenza per proteggere la stabilità globale. Israele, l’Ucraina, Taiwan e noi. Formidabile documento dì Jake Sullivan, l’ideologo di Biden (meglio di un fuori onda)

Inutile girarvi attorno: la pace si difende con la forza. Il più importante documento politico di cui non avete ancora sentito parlare lo ha scritto su Foreign Affairs del 24 ottobre Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale di Joe Biden. E’ un documento cruciale, denso, che entra nella carne viva della politica estera americana e che con coraggio mette a fuoco alcuni tabù da affrontare per provare a lavorare a, così si dice, una nuova stagione di stabilità. Il documento di Sullivan non è accattivante come un fuorionda meloniano ma offre spunti interessanti per ragionare sul futuro dei conflitti in cui è coinvolto oggi l’occidente.

 

Il tema posto da Sullivan è più o meno questo: di fronte alla proliferazione di bulli nel mondo, l’America deve entrare in una nuova prospettiva e deve rendersi conto che per garantire la sicurezza dei suoi cittadini l’inazione è più pericolosa di un’azione imperfetta. Cita il caso di Israele, Sullivan, ma cita anche molti altri casi, utili a comprendere qual è il senso della politica estera muscolare che la presidenza Biden ha cercato di promuovere nel mondo. “L’essenza della politica estera di Biden – scrive Sullivan – è gettare le nuove basi della forza americana in modo che il paese sia nella posizione migliore per plasmare la nuova èra in modo da proteggere i suoi interessi e valori e promuovere il bene comune”. E per provare a rafforzarsi nel mondo, dice Sullivan, più che esportare la democrazia occorre fare di tutto per mettere i valori della democrazia al servizio della stabilità, provando a rendersi conto di un fatto nuovo: se l’America accetta di non intervenire laddove vi è una grande crisi si crea un vuoto e quel vuoto qualcuno lo riempirà. E dunque ecco le parole chiave dell’agenda Biden: sostenere le democrazie assediate, anche militarmente, e scommettere sulla deterrenza per proteggere la stabilità globale.  

“Aiutare altri paesi a diventare più forti – dice Sullivan – rende l’America più forte e più sicura”. Il primo esempio citato da Sullivan, naturalmente, è quello che riguarda l’Ucraina, e su questo punto il consigliere di Biden usa parole che sarebbe bello ascoltare in un prossimo fuorionda di un capo di governo europeo: “Se l’aggressione della Russia fosse rimasta senza risposta, uno stato sovrano si sarebbe estinto e il messaggio che sarebbe stato inviato agli autocrati di tutto il mondo sarebbe stato chiaro: state facendo la cosa giusta”.


“E se la Russia dovesse attaccare un alleato della Nato, gli Stati Uniti difenderebbero ogni centimetro del territorio alleato, anche con nuovi dispiegamenti di forze”. La stessa logica, dice Sullivan, vale oggi quando si parla di Israele e anche quando si parla di Iran: “Gli Stati Uniti sostengono fermamente Israele poiché protegge i suoi cittadini e si difende dai brutali terroristi. Gli Stati Uniti sono a favore della protezione della vita civile durante i conflitti e del rispetto delle leggi di guerra. Hamas, che ha commesso atrocità che ricordano le peggiori devastazioni dell’Isis, non rappresenta il popolo palestinese e non difende il suo diritto alla dignità e all’autodeterminazione”. Sull’Iran il ragionamento è speculare. Fare di tutto affinché l’Iran non intervenga nel conflitto, dice Sullivan, non significa non fare nulla, non significa, come si dice spesso, evitare di provocarli, ma significa esserci. “Presteremo grande attenzione al rischio che l’attuale crisi possa sfociare in un conflitto regionale. Abbiamo condotto un’ampia azione diplomatica e rafforzato la posizione della nostra forza militare nella regione. Dall’inizio di questa Amministrazione, abbiamo agito militarmente quando necessario per proteggere il personale statunitense. E anche se la forza militare non deve mai essere uno strumento di prima istanza, siamo pronti e preparati a usarla quando necessario per proteggere il personale e gli interessi statunitensi in questa importante regione”. Si è molto fantasticato negli ultimi giorni su quelli che sarebbero stati “gli errori” commessi nel passato dagli americani dopo l’11 settembre.

Biden, durante la sua visita in Israele, ha utilizzato quell’espressione. Ma è rimasto sul vago, offrendo con astuzia agli altri la libertà di riflettere su quelli che sarebbero stati “gli errori” commessi dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Sullivan, in questo paper che è meglio di un fuorionda, ci aiuta a capire cosa significa lavorare affinché la politica estera americana possa imparare dai suoi errori del passato. E nell’evidenziare gli errori commessi, a sorpresa, l’ideologo della sicurezza del modello Biden critica non solo l’isolazionismo modello Trump ma anche quello del suo predecessore: Barack Obama. Obama non viene mai citato, naturalmente, ma il senso del discorso di Sullivan è chiaro. E clamoroso. La politica estera americana, dice, non può più essere ancorata alla fuga dal mondo tentata da Trump e al “leading from behind” sperimentato da Obama. “Il presidente Biden è stato chiaro fin dal momento in cui è entrato in carica riguardo all’importanza che attribuiva alle alleanze statunitensi, soprattutto considerando lo scetticismo del suo predecessore su questo terreno. Ma ha capito anche che coloro che hanno sostenuto queste alleanze negli ultimi tre decenni spesso hanno trascurato la necessità di modernizzarle”. E ancora: “Quando questa Amministrazione è entrata in carica, abbiamo scoperto che, sebbene l’esercito americano sia il più forte al mondo, la sua base industriale soffriva di una serie di vulnerabilità non affrontate. Dopo anni di investimenti insufficienti, invecchiamento della forza lavoro e interruzioni della catena di approvvigionamento, importanti settori della difesa sono diventati più deboli e meno dinamici. L’Amministrazione Biden sta ricostruendo questi settori, facendo di tutto, dagli investimenti nella base industriale sottomarina alla produzione di munizioni più all’avanguardia, in modo che gli Stati Uniti possano fare ciò che è necessario per sostenere la deterrenza nelle regioni competitive”.

 

Si vis pacem, dicevano i vecchi saggi latini, para bellum. E la strategia suggerita da Sullivan è proprio questa. La deterrenza non si costruisce con le chiacchiere, ma si costruisce anche con la forza, oltre che con la politica, e solo un investimento sui nostri eserciti, all’altezza delle sfide del tempo, può aiutare a scoraggiare le aggressioni future. Circa venti paesi della Nato, dice Sullivan, oggi “sono sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo di spendere il 2 per cento del loro pil per la difesa nel 2024, rispetto ai soli sette paesi nel 2022”. Il Giappone, aggiunge Sullivan, ha promesso di raddoppiare il suo bilancio per la Difesa e sta acquistando missili Tomahawk di fabbricazione statunitense, “per rafforzare la deterrenza nei confronti dei concorrenti dotati di armi nucleari nella regione”. Nell’ambito dell’accordo Aukus, il partenariato trilaterale sulla sicurezza tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito, l’Australia sta effettuando il più grande investimento nella capacità di difesa della sua storia, investendo anche nella base industriale della difesa statunitense. E anche la Germania, negli ultimi mesi, da paese ultra pacifista, non interventista, neutrale, è diventata il terzo fornitore di armi all’Ucraina.

 

“In questi anni – rivendica Sullivan – abbiamo avviato un processo con alleati e partner degli Stati Uniti per aiutare l’Ucraina a costruire un esercito in grado di difendersi sulla terra, in mare e in aria e scoraggiare future aggressioni. Il nostro approccio in Ucraina è sostenibile e, contrariamente a chi sostiene il contrario, migliora la capacità degli Stati Uniti di far fronte a ogni contingenza nell’Indo-Pacifico. E non ottenere il sostegno degli Stati Uniti, non solo metterebbe gli ucraini in grave svantaggio mentre si difendono, ma creerebbe anche un terribile precedente, incoraggiando l’aggressione in Europa e oltre. Il sostegno americano all’Ucraina è ampio e profondo e durerà”. E non solo: “Grazie al nostro lavoro, gli alleati nell’Indo-Pacifico sono oggi convinti sostenitori dell’Ucraina, mentre gli alleati in Europa stanno aiutando gli Stati Uniti a sostenere la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan”. Sullivan si dilunga molto anche sul rapporto con la Cina, soffermandosi sul dovere che hanno gli Stati Uniti a impegnarsi in un grande investimento in Africa alternativo alla seducente Belt and Road Initiative cinese (anche qui vi è una critica ai predecessori di Biden: “Negli ultimi decenni, le catene di approvvigionamento degli Stati Uniti per i minerali critici sono diventate fortemente dipendenti dagli imprevedibili mercati esteri, molti dei quali sono dominati dalla Cina”). Ma il passaggio più significativo in cui ragiona sugli “errori” del passato commessi dall’America dopo l’11 settembre è quello riservato al ritiro dall’Afghanistan voluto da Biden.

Un ritiro che evidentemente cozza con la volontà da parte degli Stati Uniti di presidiare, anche con la forza, i quadranti globali capaci di generare maggiore instabilità nel mondo. Ma un ritiro che Sullivan spiega rilanciando: per poter far sì che gli Stati Uniti possano essere efficaci nella loro azione di deterrenza “occorre evitare le guerre prolungate che possono vincolare le forze statunitensi e che fanno ben poco per ridurre effettivamente le minacce per gli Stati Uniti”. “La transizione in Afghanistan – dice Sullivan – è stata senza dubbio dolorosa, soprattutto per il popolo afghano, per le truppe statunitensi e per il personale che ha prestato servizio lì. Ma era una transizione necessaria per preparare l’esercito americano alle sfide future. Una di queste sfide è arrivata ancora più rapidamente di quanto ci aspettassimo, con la brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Se gli Stati Uniti stessero ancora combattendo in Afghanistan, è molto probabile che la Russia starebbe facendo tutto il possibile in questo momento per aiutare i talebani a inchiodare Washington lì, impedendole di concentrare la sua attenzione sull’aiuto all’Ucraina”. Il disimpegno dell’America genera mostri. La non azione dell’occidente stimola le azioni dei bulli. E se si accetta il fatto che la globalizzazione purtroppo, dice ancora Sullivan, non ha funzionato come avrebbe potuto, e se si accetta il fatto cioè che l’integrazione tra i mercati non è stata sufficiente per creare maggiore stabilità, bisogna avere il coraggio di affermare che la sicurezza nel mondo non passa dall’alzare bandiera bianca ma passa dall’avere il coraggio di mettere la forza al servizio della libertà, della democrazia e della pace. Se vuoi la pace, prepara la guerra. E ricordate, anche nei fuorionda, che non agire di fronte a un pericolo potenziale è il modo migliore per avere un domani un mondo meno pacificato e meno sicuro. 
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.