Tra Washington e Gerusalemme

I tre significati della visita di Biden in Israele e le critiche dei detrattori. L'ospedale colpito a Gaza City

Paola Peduzzi

Gli obiettivi del "wartime trip" del presidente americano in medio oriente: il sostegno a Israele e la sicurezza dei civili palestinesi che vivono nella Striscia

Oggi il presidente americano, Joe Biden, arriva in Israele per confermare il suo sostegno  all’alleato più importante del medio oriente: è un “wartime trip”, una visita in tempo di guerra, complicata e necessaria per diverse ragioni. La prima è appunto il sostegno: Israele vuole e deve sradicare Hamas che il 7 ottobre ha mostrato quanto feroce è nel perseguire il suo obiettivo da statuto: eliminare lo stato ebraico. Il terrorismo del gruppo palestinese è anche una minaccia internazionale, come insegnano anni di lotta contro il jihadismo, alla sicurezza collettiva e se si risale la filiera del terrore si arriva a paesi che sponsorizzano il terrorismo in altre parti del mondo. La seconda ragione ha  a che fare con la sicurezza, quella dei civili palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, target delle bombe di Israele: ieri è stato colpito un ospedale a Gaza City, centinaia di persone sono morte o intrappolate sotto le macerie.

 

Biden andrà anche ad Amman, per incontrare il re giordano Abdullah II, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi  perché il loro aiuto è fondamentale per la gestione dei corridoi umanitari e per l’evacuazione. Era previsto anche il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, ma in seguito all’attacco all’ospedale ha detto che non avrebbe più partecipato. Il vertice dopo l'esplosione all'ospedale di Gaza è stato annullato.

Secondo le stime delle ong e dell’Onu, sono seicentomila i palestinesi sfollati nel sud della Striscia: questo lembo di terra lungo quaranta chilometri, affollato e allo stremo non riesce a reggere queste evacuazioni, ma l’unico valico utilizzabile, quello di Rafah con l’Egitto, resta chiuso, il ponte aereo annunciato dall’Unione europea funziona male e così non escono le persone e non entrano gli aiuti. Biden, proprio come ha fatto negli ultimi giorni il segretario di stato Antony Blinken, vuole sbloccare questo stallo disastroso e per farlo ha bisogno certamente di convincere il governo israeliano ma anche  tutti gli attori della regione, che condannano “l’assedio di Gaza” ma non fanno nulla per alleviarlo. Le pressioni sui paesi della regione servono anche per la liberazione degli ostaggi: la diplomazia americana è in contatto con il Qatar e con le altre nazioni che hanno un legame diretto con Hamas, ma non ci sono risultati evidenti (o forse non sono pubblici: sono negoziati che non possono avvenire alla luce del sole) e alcuni temono che la visita di Biden e il sostegno all’operazione di terra di Israele possa finire per complicare le trattative. 

 

L’azione diplomatica degli Stati Uniti vuole salvaguardare Israele dalle accuse di sproporzionalità, che comunque già ci sono,  tutelare i negoziati sugli ostaggi di Hamas e allo stesso tempo  evitare che il conflitto si allarghi: il convitato di pietra è la Repubblica islamica d’Iran. Biden è criticato – attaccato – dai repubblicani e da molti esponenti conservatori perché invece che dissuadere Teheran dall’aprire altri fronti contro Israele cerca di trattenere Gerusalemme da un’operazione efficace a Gaza. Niall Ferguson, saggista conservatore, ha spiegato in un’intervista a FreePress che l’Amministrazione “sta pubblicamente cercando di scoraggiare l’azione contro Hamas a Gaza. E’ una cosa per me inspiegabile, ma il governo americano dice che non ci sono le prove del fatto che l’Iran abbia avuto un ruolo negli attacchi di Hamas” contro Israele. Secondo Ferguson, invece che trattenere Benjamin Netanyahu, Biden dovrebbe dire “pubblicamente o privatamente, non importa, che se i gruppi legati all’Iran faranno altri attacchi contro Israele, gli Stati Uniti, con le due portaerei e le forze d’attacco nella regione, attaccheranno i gruppi sostenuti dall’Iran e, direi, i siti nucleari iraniani”. 

 

Questo è esattamente ciò che Biden vuole evitare: tutta la sua azione diplomatica è stata improntata a non allargare il conflitto e per il momento Netanyahu sta ascoltando l’alleato americano così come nei paesi vicini a Israele non ha avuto grande seguito la chiamata alle armi di Hamas. Per ora almeno: con l’ingresso delle forze israeliane a Gaza tutto è destinato a cambiare, non soltanto nella regione ma nel dibattito internazionale. In questo un ruolo attivo ce l’ha, ancora una volta, la politica domestica americana e in particolare il Partito repubblicano che accusa Biden non soltanto di essere troppo cauto nei confronti dell’Iran (i toni usati sono ben più duri di così) ma di esserlo perché la sua priorità è la difesa dell’Ucraina contro l’aggressione russa. Il presidente americano ha di nuovo detto che gli Stati Uniti possono e sanno gestire i due fronti allo stesso tempo: “Siamo l’America, santo cielo – ha detto – Il paese più potente della storia, non del mondo, della storia del mondo. Possiamo occuparci di entrambe le crisi e comunque mantenere la nostra difesa internazionale”. A Israele servono armi diverse da quelle che servono a Kyiv e tutti i dati ufficiali del ministero della Difesa americano dimostrano che le risorse ci sono: è la volontà politica dei repubblicani a non esserci e ad alimentare la propaganda di Vladimir Putin che ora si riempie anche di retorica antisraeliana: l’occidente ipocrita condanna i massacri russi in Ucraina ma non quelli di Israele a Gaza.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi