l'editoriale del direttore

Difendersi da Hamas è come difendersi dal nazismo: Netanyahu rompe un tabù

Claudio Cerasa

Fino a oggi per il popolo ebraico, il nazismo, la Shoah, l’Olocausto avevano le forme dell’unicità: per quanto le tragedie del presente potessero essere incombenti e letali, i paragoni con il passato tragico sono sempre stati banditi. Ecco perché bisogna ascoltare il premier israeliano

Sul sostegno al diritto di esistere nessun dubbio: c’è stato. Sul sostegno al diritto d’esistere pure: nessuna ambiguità. Sul sostegno al diritto di reagire stessa storia: appoggio trasversale. Sul sostegno al diritto di raggiungere “una vittoria completa su Hamas”, come ha detto ieri alla Knesset il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, le cose si complicano, naturalmente. Eppure, il grande test di fronte al quale si troverà nelle prossime ore la comunità internazionale sarà proprio questo. Come dimostrare che la guerra di Israele è anche la nostra guerra. Come riuscire a mostrare al mondo che la minaccia rappresentata dai terroristi di Hamas merita di essere spazzata via per proteggere la sicurezza non solo di Israele ma di tutto l’occidente libero. “Tutto il mondo – ha detto ieri Netanyahu – sta iniziando a capire chi ha di fronte Israele oggi. Tutto il mondo sta iniziando a capire che Hamas rappresenta una nuova versione del nazismo. E proprio come il mondo si è unito per sconfiggere i nazisti e l’Isis, così deve unirsi per sconfiggere Hamas”. Nella storia dello stato ebraico, non era mai successo che un primo ministro israeliano dicesse che i nemici del presente di Israele sono come i nazisti. Fino a oggi, per Israele e per il popolo ebraico, il nazismo, la Shoah, l’Olocausto avevano  le forme dell’unicità: per quanto le tragedie del presente potessero essere incombenti e letali, i paragoni con il passato tragico sono sempre stati banditi dal dibattito pubblico.

Ieri  Netanyahu, parlando a nome di un governo di unità nazionale, ha rotto un tabù. E ha aggiunto un tassello ulteriore per provare a mettere a fuoco il mosaico della minaccia rappresentata dai terroristi di Hamas. Come l’Isis. Come il nazismo. Se si nega la possibilità che Hamas possa essere l’equivalente di un gruppo di terroristi islamisti che agisce con metodi nazisti con l’unico scopo di annientare il popolo ebraico, si potrà avere qualche dubbio sulla necessità da parte di Israele di mettere in ginocchio Hamas. Se si accetta l’assunto del premier israeliano (sono come i nazisti) e del presidente americano (sono come l’Isis), non si potranno avere troppi dubbi su quali debbano essere i passi successivi che la comunità internazionale dovrà muovere per dimostrare di essere dalla parte di Israele non solo a parole ma anche con i fatti. Il primo passo, importante, è fare di tutto per non alimentare gli equivoci morali dell’occidente (supportare Israele contro Hamas e proteggere i palestinesi contro Hamas non sono politiche contraddittorie, ha scritto giustamente ieri il Financial Times) e non assecondare una tentazione pericolosa che si farà sempre di più strada non solo nei talk-show italiani ben presidiati ormai anche dalla quota Hamas: trasformare la difesa di Israele, unica democrazia del medio oriente, unico paese del medio oriente in cui gli arabi possono votare liberamente, unico paese del medio oriente in cui un omosessuale può vivere senza paura di essere giustiziato, unico paese del medio oriente che combatte i suoi nemici nel rispetto del diritto internazionale, in un processo a Israele.

Il secondo passo, ancora più importante, è fare di tutto per evitare, come ha notato ieri il Wall Street Journal, un nuovo fallimento della deterrenza. Gli avvertimenti della Casa Bianca non hanno impedito a Vladimir Putin di invadere l’Ucraina e non hanno impedito agli agenti dell’Iran di attaccare le forze americane ottantatré volte negli ultimi due anni. (segue a pagina quattro)
E per provare a dissuadere ora l’Iran dallo scatenare Hezbollah e altri intermediari dall’aprire un secondo o terzo fronte contro Israele occorre riconoscere che l’invio di risorse militari per aiutare Israele (è in arrivo una seconda portaerei americana nel Mediterraneo orientale per prevenire azioni ostili a Israele) non è la spia di un’escalation ma è la spia di una consapevolezza precisa: mostrare il proprio sostegno incondizionato a Israele per evitare una guerra più grande avendo la contezza che il costo per la sicurezza del mondo sarebbe ignorare la pericolosità di un gruppo di terroristi pronto a fare qualsiasi cosa per uccidere un ebreo solo perché questo avrebbe la grave colpa di essere ebreo. Come con l’Isis. Come con il nazismo. La guerra di Israele è anche la nostra guerra.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.