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In medio oriente

Israele, la vittima esecrabile. La dissonanza cognitiva di una rimozione ideologica e brutale

Guido Vitiello

Perché la sinistra militante, la campus left e una parte del femminismo non riescono a tollerare che lo stato ebraico sia la vittima, e non il colpevole

Non so dirvi se il 7 ottobre sia stato in effetti l’11 settembre di Israele, come ho letto nei titoli di tanti giornali; posso in compenso mettervi a parte di un ricordo che da giorni ronza intorno ai miei pensieri, punzecchiandomi con continui déjà-vu. Doveva essere il lunedì successivo agli attentati, dunque il 17 settembre del 2001. “Sono pazzi”, esordì il mio amico, un giornalista molto più a sinistra di me, entrando nella stanza dove lavoravo all’epoca. Sollevai gli occhi dal computer, e mi accorsi che era terreo in volto. Potevo ben comprenderlo: non capita tutti i giorni, e nemmeno tutti i secoli, di vedere dei kamikaze che schiantano due aerei di linea contro dei grattacieli, uccidendo migliaia di persone. “Sono pazzi”, ripeté, e dal giornale che aveva tra le mani mi lesse la notizia che tanto lo aveva turbato: a New York un gruppo di adolescenti aveva molestato due donne con l’hijab che spingevano i loro passeggini, gridando loro frasi minacciose e insulti razzisti; sempre a New York, dei ragazzi avevano preso di mira un incolpevole tassista sikh, dandogli del terrorista e intimandogli di togliersi il turbante. Guardai il mio amico con aria incredula. Gli episodi erano spiacevoli, certo, ma dopo uno shock come quello dell’11 settembre si poteva ben mettere in conto che tra gli otto milioni di abitanti di New York qualcuno reagisse in maniera non proprio composta e specchiata. Il mio appunto, però, cadde nel vuoto. Da quel momento tutta l’attenzione, la passione e l’indignazione del mio amico si distolsero dalle macerie delle torri e si riorientarono verso la reazione americana all’attacco terroristico, per poi concentrarsi, di lì a pochi giorni, sui primi scenari di guerra in Afghanistan. I tremila morti delle Twin towers erano scomparsi dal suo orizzonte mentale, cancellati in una settimana appena; o forse in un istante, come in una rapture apocalittica. 

Col senno di poi, penso di aver capito quale effetto liberatorio dovettero avere, per il mio amico, quelle due irrilevanti notiziole di cronaca newyorkese. In breve, la sua mente non poteva tollerare che gli Stati Uniti – nell’èra di Bush figlio, per giunta – occupassero a lungo la casella della vittima. La dissonanza cognitiva che questo gli provocava era troppo penosa e difficile da gestire: gli americani dovevano tornare, e di corsa, nella loro casella designata, quella del carnefice. Ebbene, dal 7 ottobre 2023 rivivo ininterrottamente lo stesso episodio, solo su una scala più grande. Non solo perché stavolta tutto è moltipicato per mille nel prisma dei social network, ma anche e soprattutto perché l’ipotesi che a Israele possa essere concesso di occupare, foss’anche per cinque minuti, la posizione della vittima, si scontra a sinistra con resistenze incomparabilmente più coriacee. Le tante manifestazioni filopalestinesi che reputano sconveniente perfino menzionare la macelleria terroristica di Hamas, gli appelli feroci e omissivi di tante associazioni studentesche americane, la viltà interessata delle loro università di appartenenza, la fretta di dipingere Netanyahu come un nuovo Hitler proprio nei giorni in cui Hamas ci ha rinfrescato la memoria sulle modalità operative degli Einsatzkommandos nell’Europa orientale – tutto questo è troppo vistoso per non essere sintomo di qualcosa di profondo. Già, ma di che cosa? Ho provato a interrogarmi su questo cocciuto risentimento verso Israele che consente a chi lo cova di glissare senza batter ciglio sulle famiglie stanate casa per casa e trucidate, le donne stuprate, i neonati carbonizzati, gli uomini decapitati a colpi di vanga. Elencherò qui alla rinfusa le mie congetture psicopolitiche, mettendo per un attimo tra parentesi quell’elefante innominabile quanto inaggirabile – l’antisemitismo – che per ragioni fin troppo ovvie tende a ingombrare tutta la scena quando si parla di Israele. Chi si aspetta delle risposte persuasive, o anche solo una grandinata di invettive, sarà deluso: per quanto forte sia il mio disprezzo, cercherò di non ridere né piangere, solo di capire. 

La prima risposta che mi sono dato ha a che fare con una zona cieca del campo visivo ideologico. Giovedì scorso, su The Atlantic, Gal Beckerman ha scritto un articolo intitolato “The Left abandoned me”. Come tanti ebrei di sinistra in America e in Europa, Beckerman si è sentito abbandonato. Era deluso e incredulo nel constatare che i suoi amici progressisti, solitamente compassionevoli verso tutte le sofferenze del mondo, “osservavano gli eventi solo attraverso le categorie rigide di colonizzato e colonizzatore, di israeliano malvagio e palestinese giusto”. E in questo schema la sofferenza ebraica non poteva trovare una collocazione plausibile. Di conseguenza, “non erano in grado di riconoscere un abominio morale neppure quando lo avevano davanti agli occhi”. C’è una logica in questo uso selettivo della sensibilità, o meglio, nel non saper che farsene di emozioni che non superano il vaglio dell’inquadramento ideologico; una logica che spiega le reticenze della campus left, l’improvviso mutismo di una parte del mondo femminista che allucina “cultura dello stupro” ovunque, perfino nei cartoni animati dei Looney Tunes, tranne che nelle immagini delle ragazze israeliane violentate dai miliziani di Hamas, le sortite inqualificabili come quella – poi ritirata – di Black Lives Matter a Chicago, che ha pubblicato un post inneggiante alla resistenza palestinese dove si vedeva il disegno di un terrorista in parapendio, strizzando l’occhio alla strage del rave party di Gaza. In pochi giorni abbiamo assistito alla bancarotta morale irrimediabile della galassia della social justice. Ancora le vittime israeliane non avevano ricevuto sepoltura, e già loro schieravano in armi i loro gerghi accademici post-coloniali e de-coloniali per metterci in guardia contro l’islamofobia, il razzismo antipalestinese, l’orientalismo, la mentalità da razza padrona che ci porta ad “alterizzare” il nemico. Per chi è stato diseducato a leggere il mondo in termini di mere relazioni di potere, di oppressori e oppressi, grazie a una scolastica cinica che ha estratto il peggio di Foucault, Fanon e Said per comprimerlo in un bignami, l’idea che il colonizzatore sia vittima è un’impossibilità logica: Hebraicus est, non legitur. La prima ragione dell’indifferenza è dunque da mettere in conto all’economia cognitiva.

Ma c’è qualcosa di più: per la sinistra identitaria che ha fatto della vittimologia il fondamento della propria legittimità e il capitale simbolico da spendere sul mercato politico, l’idea che Israele occupi il posto della vittima è semplicemente inaccettabile. Per quanto l’espressione suoni bizzarra, c’è un’oscura “invidia della Shoah” che si lascia osservare in filigrana dietro un sistema ideologico basato sulla competizione delle vittime – o sulla loro cooperazione intersezionale in uno schema gerarchico capovolto. Se si accetta il paradigma vittimario, è evidente che il male esorbitante della Shoah fa sballare tutti i conti, accendendo un credito inesauribile (e un ragionamento andrà pur fatto, prima o poi, su come alcuni usi pubblici dell’Olocausto, nella cultura americana degli anni Settanta, abbiano fatto da levatrici inconsapevoli di certe logiche della identity politics odierna). Perciò, non solo bisogna disconoscere frettolosamente e sprezzantemente questo credito storico, ma se possibile bisogna ritorcerlo contro chi pretende di rivendicarlo, accusando Israele di fare ai palestinesi esattamente ciò che la Germania nazista ha fatto agli ebrei. Questo ribaltamento maligno, tutto da psicoanalizzare, serve a far quadrato intorno al tempio degli oppressi collocando Israele sul pinnacolo degli oppressori, tra i bianchi colonizzatori, capitalisti, patriarcali. Prima e più che attaccare Israele in quanto tale, i militanti della sinistra identitaria difendono dunque i fondamenti della loro visione del mondo, e la ragione sociale del loro attivismo. L’empatia per Israele è pericolosa.

Eppure, sento che ancora non è tutto. Nella spaventosa insensibilità verso le vittime israeliane mi pare di cogliere anche un effetto di numbing, un ottundimento post-traumatico, un intorpidimento emotivo dovuto al fatto che sappiamo quanto in realtà quelle vittime ci siano prossime. Questo effetto, ovviamente, non colpisce la sola sinistra antisionista, ma ci riguarda un po’ tutti. Il pensiero che un terrorista entri in case come le nostre annunciandosi alla porta come “la morte”, o che atterri in parapendio a far strage di giovani in una festa così simile alle nostre, è così perturbante che dobbiamo metterlo a distanza, attivando il meccanismo di difesa che la psicoanalisi chiama “isolamento dell’affetto”: sappiamo che cosa è successo, ma non ci consentiamo di sentirlo. Allo stesso modo, non ci consentiamo di percepire fino in fondo la malevolenza e l’odio indirizzati verso di noi, perché è una percezione troppo angosciosa: se la fonte del male è esterna, infatti, è anche incontrollabile; se invece la mettiamo in conto ai villain di casa nostra – i soliti americani e israeliani – sappiamo anche come farci i conti. Quella che si mostra sotto le vesti ingannevoli di una prova di maturità e di civiltà – la capacità di vedere le nostre colpe, le ragioni dei nostri nemici e la loro umanità – è ottenuta così a buon prezzo da far supporre che nasconda l’esatto opposto, un frettoloso ricollocare il male nel cortile di casa, dove è più facile tenerlo sotto controllo. Poi, certo, c’è l’elefante dell’antisemitismo che rompe cristalli da una lontana notte del 1938, e giunti a questo punto possiamo anche toglierlo dalle parentesi e farlo rientrare nella stanza. E’ ripugnante come sempre.

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