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Noi e il dolore degli altri. L'assuefazione al Male passa attraverso uno schermo, dall'Ucraina a Israele

Andrea Minuz

Le immagini insostenibili, l’abiezione, il rumore di fondo di social e tv, il bisogno di esorcizzare l’angoscia (rileggersi Susan Sontag)

L’orrore, l’abiezione e poi tutto il resto. Cruciani con gli occhiali a specchio avvolto nella bandiera di Israele, Bandecchi che dalla Perugia medievale vuole “spianare” Gaza, Fiorella Mannoia, in prima fila contro la violenza sulle donne, che mette like a Chef Rubio (che naturalmente è stato anche testimonial Amnesty), e poi i collettivi studenteschi pro Hamas, Valditara che vorrebbe multarli o metterli in galera, Patrick Zaki, passato in un baleno da giovane promessa a solito stronzo della società civile. L’arena italiana ha in fondo sempre qualcosa di rassicurante e catartico. Non che quella internazionale sia meglio, per carità. Manca però quel guizzo surreale che a volte riusciamo a metterci solo noi. E su Harvard e il suo tracollo ci era già venuto qualche dubbio quando invitarono Giggino a tenere una Lectio Magistralis. Ma sono surreali anche gli endorsement queer e Lgbtq+ per Hamas, come in un film di Buñuel, una puntata di “Black Mirror”, o un ipotetico “chicken for Kentucky Fried Chicken”, faceva notare qualcuno su Twitter (e qui ci si chiede anche: ma Michela Murgia sarà stata seria quando ha detto “la penso come Hamas”? Lo pensava davvero? In fondo l’ha scritto su Whatsapp, forse cazzeggiava, perché poi come si fa a multare gli studenti che inneggiano a Hamas, quando tra cinque-dieci anni al massimo, saremo pieni di licei e scuole medie “Michela Murgia”?).

L’immagine della folla a Times Square, divisa esattamente a metà, bandiere di Israele da una parte, vessilli palestinesi dall’altra, mi sembra la rappresentazione plastica della mia timeline su Twitter. Gli account che hanno preso vita e ora urlano i loro tweet per strada, letteralmente se li lanciano addosso, a New York, come in quelle partite “a scacchi viventi” nella piazza Castello di Marostica, coi personaggi addobbati da pedine e i figuranti medievali tutt’intorno. Su Instagram, invece, tutti continuano a divertirsi, a recensire alberghi, ristoranti, resort, a bere daiquiri in spiagge esotiche, a prendere il sole sui motoscafi, a sfilare in qualche red carpet minore. Su Instagram è sempre permanent holiday, e il mondo lì non può mai essere davvero brutto. Gli orrori insostenibili mettono in crisi la nostra esistenza. E questi contorni un po’ surreali sono in fondo anche una camera di decompressione dell’angoscia. Dopo lo sbigottimento, il disgusto, la rabbia e l’orgoglio, riprende il rumore di fondo dei talk-show, che alla fine sono anche lì a dirci, “tranquilli, la vita continua, ci sono sempre le nostre stronzate” (ecco Orsini già incalzato dalla new entry Elena Basile, subito arruolata da Lilli Gruber, ambasciatrice in pensione, nota ai lettori del Fatto come “Ipazia”, conturbante nom de plume con cui l’anno scorso firmava articoli filorussi, “ventidue domande sulla carneficina”, “Ucraina: macché resistenza!”, eccetera).

L’angoscia, il terrore per le prime immagini dell’invasione russa in Ucraina durarono sì e no tre giorni. Passato il weekend, ecco i distinguo, i “ma”, i “se”, le prime avvisaglie di stanchezza. Ecco l’ironia sui social, i meme, le battute per esorcizzare la paura, cavalcando anche le atmosfere subito surreali della tv e la farsa trash del “pluralismo”, coi conduttori a battersi il petto per avere il loro freak in studio. La guerra in Ucraina sarebbe stata (e sarà) ancora lunga, ma dopo tre giorni era diventata monotona. Iniziava a stancare. Tre-quattro giorni è il tempo di reazione, nella nostra epoca, per metabolizzare il trauma. Per addomesticare immagini raccapriccianti come quelle di questa settimana così incredibilmente orribile nella sua escalation (anche se trattandosi di Israele i distinguo qui sono iniziati subito). Poi però le atrocità diventano un ingrediente tra i tanti nel flusso disordinato di intrattenimento che scorre impetuoso sui nostri smartphone. Si riprende a ridere e scherzare tra noi, come sul Titanic, come in “Don’t Look Up”, che non era un disaster movie sul climate change, ma un film sul trionfo isterico della logica dell’entertainment a scapito di tutto il resto, sullo sfondo di una catastrofe di volta in volta più imminente (qui da noi tra i segni dell’apocalisse c’è anche la mariofania di Flavia Vento a “Domenica In”, “ho visto la Madonna in un campo da golf, dice che non è contenta”). Prima però siamo frastornati. Non riusciamo a combinare nulla. Ci sentiamo storditi, aggrediti da quelle immagini. Proviamo vergogna. Non vorremmo vedere ma dobbiamo vedere. E le immagini allora non se ne vanno più. Ci tormentano per tutto il giorno, a casa, al lavoro, anche se mettiamo via il telefono. Chiudiamo gli occhi e rivediamo la ragazza con i pantaloni zuppi di sangue tirata via per i capelli, chiudiamo gli occhi e rivediamo in loop la folla che scappa nel deserto, e i corpi straziati, gli anziani esibiti come trofei per le strade, i bambini rapiti e strappati ai loro genitori, circondati dai carnefici, e il resto che non riusciamo neanche a scrivere, ma che non andrà più via dalla memoria.

Forse le immagini peggiori sono però quelle banali fotografie di famiglie felici e sorridenti, giovani mamme e papà e figli piccoli, di lì a breve sterminati a sangue freddo dentro casa loro, guardandoli negli occhi prima di sparargli addosso. Ma qui subito qualcuno ci farà notare che dovremmo commuoverci e indignarci anche per le immagini dei bombardamenti israeliani, i cadaveri dei palestinesi tra le macerie, gli stenti, la fame e poi ancora, nel vortice d’una insaziabile sete di giustizia sempre più orizzontale, democratica e universale, dovremmo farci carico anche di tutto il resto, i morti per il terremoto in Afghanistan, i migranti abbandonati in mare. Tutti. Ci vuole un hardware che forse non abbiamo. Quante immagini di morte, distruzione, catastrofi, odio disumano si possono immagazzinare? Forse lo scrolling sul nostro telefono serve anche a questo: lasciare che tutto scorra in un flusso indistinto di morte, odio, atrocità. Vedere tutto, quindi alla fine non vedere proprio nulla. Anestetizzarsi. Restare sfiancati, sfibrati. Emotivamente svuotati. Come Eric Bana, alias Avner Kaufmann, alla fine di “Munich”, il film di Spielberg. Prima la rabbia, la sete di vendetta, la collera, l’adrenalina. Poi, al termine della missione, il vuoto, lo sfinimento, l’idea di dover ricominciare tutto da capo, il sospetto che non sia servito a niente. Anche Kaufmann non riusciva a levarsi di dosso le immagini degli atleti israeliani trucidati a Monaco. Lo tormentano per tutto il film. Lo tormenteranno per sempre. Non possiamo fare niente, ma possiamo vedere tutto. A poche ore dal massacro del “Tribe of Nova”, il rave di musica elettronica nel deserto, con tre palchi, area camper e decine di dj in cartellone, c’era già un video che raccontava tutta la giornata in ordine cronologico. Era un montaggio dei tanti video fatti dai ragazzi che erano lì. Come un piccolo film: la presentazione del rave, l’avvio di una giornata bellissima di trance & relax nel nulla del deserto, i ragazzi che arrivano in macchina, la musica, i balli, poi in alto i terroristi che calano in deltaplano, la fuga, gli spari, le urla, fino alle ultime riprese, coi droni, che a fine giornata mostrano un paesaggio apocalittico da film horror. E’ forse questo il cinema che ci aspetta?

Regista e attori di “Fauda”, la serie sull’unità speciale israeliana che s’infiltra nei territori palestinesi, mollano le riprese e vanno ad aiutare i volontari dell’esercito. Li vediamo nei video, sotto le bombe di Hamas, come ormai fossero loro il Mossad (del resto anche il Mossad pare proprio non sia più quello di una volta). Le immagini del raid a Sderot e quelle del rave nel deserto e altre ancora resteranno tutte nella memoria come quelle delle Torri Gemelle. Icone laiche della società aperta, per quelli che ancora vorranno difenderla. E ne “La società aperta e i suoi nemici” ci sarebbe tutto quello che c’è da sapere per capire da che parte stare, specie ora che i suoi nemici sono tanti, tantissimi. Ma le immagini sopraffanno poi i ragionamenti. E i collettivi non leggono Popper, come non lo leggono i loro professori a scuola e, a quanto pare, come non lo leggono a Harvard. Popper è ormai roba da boomer. Però bisogna trovare un riparo a questo flusso di video e immagini sempre più raccapriccianti. Cosa può dare consolazione? Dove trovare conforto? Lo Xanax, certo. Ma anche svuotare gli occhi, riprendere fiato. Ripescare per esempio la Susan Sontag di “Regarding the pain of others”, il suo ultimo libro, pubblicato vent’anni fa esatti, poco prima di morire. Mossa dall’“irresistibile tentazione” di smontare le sue stesse tesi sul senso della fotografia, affidate al celeberrimo “On photography” (1977), Sontag si concentrava su un solo tipo di immagini. Le immagini insostenibili. Quelle che ci mettono davanti alle sofferenze estreme, al dolore dell’umanità. Le immagini di morte, atrocità, distruzione. “Assistere da spettatori a calamità che avvengono in un altro paese è una caratteristica ed essenziale esperienza moderna”, scrive Sontag. E lo choc delle foto è “uno dei più importanti criteri di valore, un incentivo al consumo”. “L’incessante susseguirsi delle immagini domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia è più incisiva”.

Anche in un sistema delle immagini più complesso e caotico rispetto a vent’anni fa, anche con Instagram, TikTok, Twitter, il fermo-immagine resta la forma di rimemorazione più potente. Un oggetto di contemplazione, un memento mori. Ma, dice subito Sontag, “non si dovrebbe mai dare un noi per scontato quanto si tratta di guardare il dolore degli altri”. Ne facciamo esperienza ogni giorno, e mai come in questa settimana: “La reazione tipica dinanzi alla conferma fotografica delle atrocità commesse dal proprio schieramento”, ci ricorda Sontag, “consiste nel sostenere che le immagini sono una montatura, oppure che la responsabilità è del nemico”. E’ così. La testimonianza della violenza orienta chi guarda. La stessa immagine può farci odiare la violenza o reclamare una vendetta implacabile. Ma rispetto all’epoca in cui scriveva Sontag, le cose sono più complicate. Al cumulo di immagini realizzate dai carnefici, che espongono i cadaveri del nemico come un trofeo, abbiamo quelle realizzate dalle vittime, i loro ultimi istanti di vita, i messaggi inviati ai loro cari, e poi i droni, la stampa e dei giornalisti che arrivano subito dopo sulla scena. Il repertorio di crudeltà sempre più inguardabili si allunga. La domanda però è sempre la stessa: “Riuscite a guardare?”

Quando Goya realizzò “Los desaster de la guerra”, una serie di incisioni raccapriccianti sulla guerra d’indipendenza spagnola, era ormai anziano, sordo da una ventina d’anni, disilluso da tutto, sempre più incupito. Viveva isolato nella sua casa alla periferia di Madrid. Aveva paura di diventare matto. Nonostante una sfolgorante ascesa sociale, pintor del rey prima e “primo pittore di corte” poi, onorificenza massima per un artista, da tempo non dipingeva più i suoi luminosi ritratti dall’aristocrazia spagnola. Era ossessionato da streghe, nani, creature deformi, fantasmi, cadaveri, mostri, come negli incubi minacciosi dei “cuadritos” o nei celebri “Capricci”. Nei “Disastri della guerra” Goya non racconta la barbarie della guerra. Non è un testimone o un “reporter” di efferate crudeltà compiute su civili inermi, come oggi i volenterosi giornalisti sul campo. C’è invece in quelle incisioni l’orchestrazione delle nostre reazioni, l’intreccio di ripugnanza e piacere macabro che le immagini atroci si portano dietro. Ci siamo noi “davanti al dolore degli altri”, come diceva Susan Sontag. Paura, sgomento, rabbia, vergogna si mescolano al voyeurismo, alla rabbia, a una curiosità che non si sa più se è mossa da dovere civile o perversione. Nei “Disastri della guerra” c’è tutto il rimescolamento dei nostri sentimenti. Il loro movimento ritmico, con le didascalie messe lì come movimenti sinfonici che orchestrano il crescendo e poi lo svuotarsi del nostro sdegno: “Non si può guardare”; “Io l’ho visto”; “questo è male”; “questo è peggio”; “questa è la verità”; “questo è troppo”, “il peggio è questo!”; “che follia!”; “barbari”, o un enigmatico, lapidario, “perché?” Già. Perché? Goya non ce lo spiega.  Ma quello sballottolamento emotivo che cresce, s’impenna e alla fine gira a vuoto, viene fuori ancora meglio oggi. Guardando l’orrore dagli schermi dei nostri telefoni.

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