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La disputa

Le ombre trumpiane sul dibattito tra repubblicani sconfitti

Giulio Silvano

I sondaggi rivelano che il più probabile vincitore delle elezioni del prossimo anno sarà Donald Trump. Un risultato che terrorizza gli altri candidati alla guida del Gop

I sondaggi usciti con pericoloso anticipo sulle presidenziali dell’anno prossimo sembrano aver abbassato il morale dei contendenti repubblicani che mercoledì si sono incontrati sul palco della Ronald Reagan Library in California. Non solo Donald J Trump vincerebbe le primarie, ma addirittura batterebbe Joe Biden, e questo li terrorizza, conoscendo quanto sia vendicativo con chi osa sfidarlo. Sul palco nella Simi Valley non c’è stato niente di esplosivo, nessuno ha rubato la scena al vero protagonista assente, l’ex presidente era invece a parlare ai metalmeccanici in sciopero dando la colpa alla politica green di Joe Biden se l’industria dell’auto morirà. 

Nel frattempo anche al Congresso il partito sembra allo sbando, tra vecchia guardia che prova a mantenere le posizioni di potere e le nuove leve estremiste che cercano di portare avanti chimerici impeachment per Biden, accusare il figlio Hunter e a far saltare gli accordi sulle spese, rischiando uno shutdown governativo. Lo speaker Kevin McCarthy, establishment prestato ai MAGA, non riesce a gestire le due anime del partito che ha ottenuto la maggioranza della camera a novembre. McCarthy è incapace di mostrare fermezza per paura di esser sostituito dal Freedom Caucus, il gruppo dei trumpiani che lo tiene in ostaggio. Il motivo per cui questi non approvano le spese, nonostante le pressioni bipartisan di dem e repubblicani ragionevoli, è uno, ed è semplice tanto quanto simbolico: gli aiuti all’Ucraina. Non è nemmeno una questione di soldi, ma una dichiarazione puramente ideologica. Circa il 70 percento dei deputati repubblicani è espressamente dalla parte di Kyiv, ma quel restante 30 percento, bucanieri isolazionisti o puri e semplici putiniani, tengono McCarthy per la collottola facendo saltare ogni accordo. E questa lotta ideologica è la stessa che abbiamo visto nel dibattito californiano di mercoledì, dandoci l’ennesima certezza che il GoP è diviso in due. Da una parte c’è chi è fedele al trumpismo “che parla alla pancia del paese”, dall’altra chi vorrebbe lasciarselo alle spalle. Da una parte c’è America First, dall’altra la condanna dell’invasione Ucraina e un posizionamento chiaro rispetto alla Cina. Da una parte c’è McCarthy, che obbedisce ai ricattatori Maga che non vogliono aiutare Kyiv, dall’altra c’è Mitch McConnell, leader dei senatori del GoP, che anche di recente ha detto che “non ci sono scuse” per non aiutare di più l’Ucraina. 

Anche sul palco, come nel primo dibattito in Wisconsin, la divisione sulla politica internazionale si è manifestata con lo scontro diretto tra il giovane imprenditore Vivek Ramaswamy e l’ex ambasciatrice Nikki Haley. Lui cerca di fare il piccolo Trump e chiede di smetterla con gli aiuti a Zelensky, mentre lei dice che bisogna aiutare il paese sempre di più, per indebolire la Russia e la Cina. “Ogni volta che ti sento parlare divento un po’ più stupida”, ha detto Haley a Ramaswamy, accusandolo di non sapere niente di politica estera. Haley prova a usare la ragionevolezza e l’esperienza in politica estera, per mostrare che può essere lei la prescelta a capo di un fronte anti Trump. L’ex governatore Chris Christie cerca anche lui quella posizione ma insultando il suo ex capo, dicendo che “si nasconde dietro i muri dei suoi club di golf”. DeSantis, sempre più monotono, dopo aver detto in passato che l’invasione russa era una mera “disputa territoriale”, ha detto che lui risolverebbe subito il conflitto in Ucraina, anche se non ha detto come. “E’ nel nostro interesse terminare questa guerra ed è quello che farò da presidente. Non daremo più assegni in bianco, e non saranno coinvolte truppe americane”. Esattamente quello che continua a dire da tempo Trump, a questo punto molti si saranno detti: meglio l’originale. 

Da una parte c’è il populismo, dall’altra parte il conservatorismo. Negli ultimi anni le due cose nel GoP sono andate a braccetto, sono sembrate un magma unico che ha portato il partito a vincere nel 2016, come se difesa del libero mercato e tagli alla spesa pubblica non potessero essere attuati senza l’esaltazione delle frustrazioni delle masse e l’ammiccamento ai dittatori euro-asiatici. Il candidato Mike Pence, che di Trump è stato vice, tre settimane fa in un discorso nel New Hampshire ha detto che bisogna scegliere tra le due cose, tra l’eredità di Ronald Reagan e i deliri di Donald Trump. “Se il nuovo populismo di destra dovesse conquistare e guidare il nostro partito, il partito repubblicano che abbiamo conosciuto smetterà di esistere”, ha detto. Certo, il progressismo filosocialista woke ed ecologista dei democratici è l’antagonista principale del conservatorismo, ma oggi è altrettanto pericolosa la fazione populista interna, che “sostituirà il nostro credo nel governo limitato e nei valori tradizionali con un programma messo insieme da rancori personali e indignazioni performative”. Trump è accusato di trasformare il partito di Lincoln in una setta personale che porterebbe il paese, ma soprattutto il partito, alla rovina. “Se vogliamo sconfiggere Biden”, ha detto Pence, “il GoP deve essere il partito del governo limitato, della libertà d’impresa, della responsabilità fiscale e dei valori tradizionali”. Anche Haley dice che bisogna tornare a un partito vittorioso, dice che con Trump in realtà non si vince, e fa girare la notizia, condivisa da Politico, che nei circoli dem il candidato di cui hanno più paura nello scontro del 2024 sia proprio lei. “Se nominano Nikki Haley siamo nei guai”, avrebbe detto uno stratega bideniano. Lei, che rispetto a Pence ha un fardello trumpiano sulle spalle molto meno pesante, cerca di usare il concetto di leadership per ammaliare i big donors che ancora devono decidere su chi puntare, dopo aver perso speranza nella cometa DeSantis. In un memo della sua campagna elettorale, Haley fa notare come, con così pochi soldi raccolti, sia riuscita ad arrivare nei sondaggi al terzo posto, almeno nei primi stati in cui si voterà, mentre il governatore della Florida è in caduta libera. 

Come ha scritto Karen Tumulty sul Washington Post, “Probabilmente è arrivato il momento di riconoscere che i dibattiti presidenziali non hanno senso se il frontrunner si rifiuta ripetutamente di presentarsi”. Pur non essendoci, la presenza di Trump si sentiva, sicuramente più di quella del candidato Doug Burgum, governatore del North Dakota, che ha parlato meno di tutti. Tranne il kamikaze Christie, che ormai non ha più carte da giocarsi, tutti sembrano ancora aver paura di Trump, di essere cacciati via se dovesse tornare al comando, come ha sempre fatto con le voci discordanti che non è riuscito a sottomettere. Nonostante Pence nei suoi comizi cerchi un’alternativa al populismo del suo partito, davanti agli altri sembra meno radicale, spaventato dall’allettante fantasma della demagogia che lo ha portato alla Casa Bianca nel 2016. Tutti tirano fuori il nome di Reagan, si usa come carta Jolly perché fa risuonare qualcosa di grandioso nel cuore della destra, e anche DeSantis ha citato una frase del suo celebre discorso, A time for choosing. Sì, è arrivato il tempo per scegliere, ma tra conservatorismo e populismo.