L'elezione di Srettha Thavisin in Thailandia, tra autocrazia e populismo

Massimo Morello

Nelle stesse ore in cui veniva nominato il primo ministro, faceva il suo ingresso trionfale nel carcere di Bangkok l'ex premier deposto da un colpo di stato nel 2006, Thaksin Shinawatra. Il fantasma della democrazia, stroncata appena si manifesta 

Stamattina, nel carcere di detenzione cautelare di Bangkok, le visite familiari sono state sospese. In quelle ore, infatti, vi ha fatto un ingresso quasi trionfale Thaksin Shinawatra, 74 anni, l’ex premier deposto da un colpo di stato nel 2006, accusato di una lunga serie di reati, tra abusi di potere, conflitti d’interesse, frodi fiscali. Thaksin, latitante dal 2008, era arrivato poco prima con un jet privato. Accolto da figli e nipoti, apparentemente in perfetta forma, in completo blu e cravatta rossa, si è prosternato di fronte al grande ritratto del re e della regina. Lungo la strada verso la città è stato salutato da un cordone di camicie rosse, i suoi seguaci, quelli che erano considerati i nemici della monarchia thailandese. Subito dopo l’entrata in carcere, dove dovrebbe trascorrere i prossimi anni, è stato trasferito nell’ala attrezzata dove potrà ricevere “cure appropriate” e dove gli saranno garantite condizioni di vita adatte al suo status, compreso lo spazio sufficiente ad accogliere numerosi visitatori. Probabilmente Thaksin ha già richiesto la grazia reale e potrebbe essere liberato a breve. “Si è chiuso un capitolo cruciale della politica thailandese” si è affrettato a dichiarare Thitinan Pongsudhirak, politologo di riferimento per gli osservatori internazionali. 

 

In questa brevissima cronaca ci sono tutti gli elementi per un nuovo capitolo della trama thailandese tra disuguaglianze e complotti. Una trama che si arricchisce di intrighi e misteri con la cronaca di ciò che è accaduto nelle stesse ore nel faraonico palazzo del parlamento thai dov’è stato rapidamente eletto primo ministro Srettha Thavisin, il candidato del Pheu Thai, ultima incarnazione del movimento politico fondato da Thaksin. Si conclude così una vicenda iniziata con le elezioni del 14 maggio, vinte dal Move Forward, partito che basa il suo programma su una radicale riforma del sistema istituzionale thai, compresa la modifica dell’articolo 112 del Codice penale, la draconiana legge sulla lesa maestà da sempre utilizzata dall’establishment per bloccare ogni cambiamento. Il Move Forward aveva formato una coalizione col Pheu Thai ma non era stata sufficiente al suo candidato, Pita Limjaroenrat, nuovo idolo della gioventù progressista, a diventare primo ministro.

 

A impedire la sua nomina era la costituzione elaborata dalla giunta militare che aveva preso il potere nel 2006, secondo la quale il primo ministro è nominato dai deputati eletti e dai senatori designati dal governo. Una sorta di comma 22 che lascia la scelta in mano ai militari. Come se ciò non bastasse, lo stesso Pita è stato escluso dalla vita politica e il suo partito rischia lo scioglimento per cavilli della legge elettorale. Il Pheu Thai ha così deciso di sganciarsi dalla coalizione e, per assicurarsi la nomina del primo ministro, ha deciso di formarne un'altra di larghissime intese. Anche con i due partiti formati dai generali autori del golpe che aveva destituito Thaksin. Srettha, 61 anni, immobiliarista, esponente dell’ala più moderata del Pheu Thai, appariva l’uomo migliore per guidare questo nuovo rassemblement. E infatti è stato nominato con 482 voti favorevoli, 165 contrari (151 sono del Move Forward) e 81 astensioni. Praticamente un plebiscito, anche se è stato accusato di frodi da Chuwit Kamolvisit, ex demiurgo dei bordelli di lusso che, affetto da cancro terminale, ha deciso di divenire il grillo parlante di Thailandia.

 

Difficile non credere alle voci di un cosiddetto “super accordo” stipulato a Hong Kong una decina di giorni fa tra Thaksin, i rappresentanti dei militari ed esponenti dell’élite economica e nobiliare thailandese. Il tutto, molto probabilmente, con il placet di Sua Maestà Rama X, che dovrà comunque ratificare la carica di primo ministro. È una vicenda che risulta difficile da comprendere e giustificare. La chiave, ancora una volta, è la “teoria del domino”. Negli anni della guerra fredda il fantasma che si aggirava nell’Indocina di allora era il comunismo. Si temeva che qualora una nazione fosse caduta in mani “comuniste”, tutte le altre sarebbero seguite come tessere di un domino. Oggi il fantasma dell’Asean è la democrazia, stroncata appena si manifesta. È accaduto in forma violentissima in Birmania. Sta accadendo in modo più sottile in Thailandia, dove l’autocrazia ha trovato il compagno ideale in un populismo che ha già promesso aumenti salariali, lotta alla povertà e un bonus una tantum per tutti.