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democrazia in bilico

La partita pericolosa che si gioca in Thailandia tra élite, monarchia e generali golpisti

Massimo Morello

La votazione del primo ministro è stata (di nuovo) rinviata e il leader del primo partito è ancora sospeso. Per ora, gli unici a trarne vantaggio sono i cinesi

Ieri il secondo figlio del re di Thailandia, Maha Vajiralongkorn, è tornato in patria dopo 27 anni di lontananza. Forse il suo ritorno non ha nulla a che vedere con la situazione politica. Ma per quell’aura di mistero che circonda Bangkok, tra sparizioni, ritorni, apparizioni, sospetti, bugie e profezie, ne è quasi una metafora. Il 3 agosto, ventiquattr’ore prima che il parlamento thailandese si riunisse per quella che doveva essere la votazione definitiva del nuovo primo ministro, la votazione è stata ancora rinviata, sembra al 16 agosto. La Corte costituzionale dovrà prima decidere se Pita Limjaroenrat, leader del Move Forward, il partito progressista che ha vinto le elezioni del 14 maggio, possa essere candidato. Il 19 luglio scorso era stato sospeso dalla carica di parlamentare per presunte irregolarità nella campagna elettorale.

Quello che è accaduto in Thailandia dalle elezioni,  sta accadendo in questi giorni, quello che accadrà nelle prossime settimane con la nomina del primo ministro e nei prossimi mesi per le conseguenze di questa scelta, potrebbe comporre un nuovo libro del Ramakien, il poema thailandese, un’epopea di decine di migliaia di versi dove c’è dentro tutto ciò che compone la khwampenthai, la thailandesità.

Nella khwampenthai si trovano le ragioni di una vicenda in cui la politica diviene un groviglio inestricabile. L’ostracismo posto al Move Forward e al suo leader, infatti, trae origine dalla proposta di quel partito di modificare l’articolo 112 del Codice penale, che regola il reato di lesa maestà. Per i conservatori questa norma è uno dei pilastri dell’ideologia di “Nazione, Religione e Re” che va difesa a ogni costo, mentre la proposta del Move Forward celerebbe addirittura l’obiettivo di rovesciare la monarchia. Un sacrilegio che rischia di minare le basi di quella “autocrazia paternalistica” dove un singolo leader o una élite incarnano potere e autorità.

In questo senso, il Pheu Thai, il partito populista che ha conquistato il secondo posto alle elezioni, può essere più facilmente accettato dai gruppi conservatori. E’ l’ennesimo paradosso della politica thai, considerando che sino a oggi il Pheu Thai era considerato il nemico di tutte le élite e dopo le elezioni si era alleato al Move Forward per formare il governo. Quando però questa possibilità è sfumata (come prevedibile e previsto), il Pheu Thai si è dissociato dall’alleato relegandolo all’opposizione e ha annunciato la sua candidatura nella persona di Srettha Thavisin. Sostenuto dalla classe imprenditoriale, un uomo d’affari “liberale” ma “moderato”, un “non-confrontational” di un partito che voleva la rivoluzione, Srettha personifica tutti gli altri ossimori thailandesi. Il Pheu Thai ha così ottenuto il sostegno del Bhumjaithai, il partito di Anutin Charnvirakul, conosciuto soprattutto per le sue gaffe nei confronti dei farang, gli stranieri, e ancor più per la sua legge sulla decriminalizzazione della cannabis che gli ha assicurato il sostegno degli agricoltori del nord. Ma per formare il governo il Pheu Thai ha bisogno di molti altri voti, che spera di ottenere dai 250 senatori nominati dal precedente governo.  Sarebbe una vittoria di Pirro, che trasformerebbe il partito in un fantoccio nelle mani di quelle élite che voleva abbattere. E se ancora non riuscisse, l’ultima possibilità sarebbe quella di chiedere i voti dei due partiti guidati dai generali autori del golpe. Si comporrebbe così un patto col diavolo, quella che è stata definita “la follia Faustiana del Pheu Thai”. In fondo, però, nobiltà, militari e gran parte della popolazione, soprattutto tra gli agricoltori e le classi meno istruite, parlano lo stesso linguaggio, sono accomunati dalla stessa khwampenthai come dal gusto del som tam, l’insalata di papaya verde. Per la casta dominante, quindi, il Pheu Thai appare il male minore rispetto al Move Forward che rappresenta i giovani, gli intellettuali, tutti coloro che vorrebbero portare la Thailandia nella contemporaneità. Paradossalmente il limite del Move Forward è proprio questo: apparire espressione di una nuova élite cosmopolita piuttosto che dei bisogni reali del “popolo”. E mentre Pita e i suoi ribadivano la volontà di riformare il sistema cominciando dalla legge 112, Srettha e Paetongtarn Shinawatra, figlia di Thaksin Shinawatra, l’arcinemico dell’establishment thai, il patriarca del Pheu Thai, si sono fatti notare tra le personalità che rendevano omaggio al corteo reale in occasione del settantunesimo compleanno del re. Sembrava quasi la conferma di quel perdono reale che potrebbe attendere Thaksin. Il multimiliardario divenuto primo ministro e deposto da un colpo di stato nel 2006, dal 2008 vive in esilio per evitare i dieci anni di carcere cui è stato condannato per diversi reati, ma il suo ritorno, quasi un “ritorno dell’eroe”, sembrava imminente. La figlia Paetongtarn lo aveva annunciato per il 10 agosto. La grazia sarebbe arrivata dopo solo 24 ore di detenzione. Trascorse la prigionia comunque in una cella per detenuti privilegiati. Inevitabile il sospetto che Thaksin fosse il convitato di pietra, una delle menti occulte di tutta questa vicenda. L’altra potrebbe essere il generale Prayuth, l’autore del golpe che ha deposto Thaksin, che da allora governa il paese e che ha annunciato il suo ritiro dalla politica. Ma a cui sembra assicurato l’incarico di presidente del Privy Council, il potentissimo gruppo di consiglieri del re. 

Dopo il rinvio delle votazioni per la nomina del primo ministro, però, il ritorno di Thaksin ha subìto un rinvio, prima negato e poi confermato proprio quando Thaksin era in Cambogia per la festa di compleanno del primo ministro Hun Sen. I due hanno un lungo rapporto d’amicizia e probabilmente speravano di celebrare assieme il passaggio di consegne ai propri eredi

Secondo Chuwit Kamolvisit, ex tenutario dei più lussuosi bordelli di Bangkok, poi sceso in campo e oggi definito la “gola profonda” della politica thai, l’incertezza e poi la rinuncia di Thaksin sarebbe dovuta proprio all’ambiguità della situazione. C’è già chi sostiene che lo stallo potrebbe essere risolto solo affidandosi ancora ai militari, magari nominando, non si sa bene con quali voti, il generale Prawit Wongsuwan. E c’è anche qualcuno che teme si possano ripetere le proteste delle camicie rosse che nel 2010 occuparono il centro di Bangkok e furono represse con i carri armati. Per altri la prospettiva è addirittura peggiore: la ripetizione di quelle proteste del 1992 che si conclusero con bagno di sangue. 

Si sta giocando una partita molto pericolosa. Gli unici, per il momento, che sembrano trarne vantaggio  sono i cinesi. La crisi economica aggravata dall’incertezza politica ne favorisce gli investimenti. Ma soprattutto hanno visto fuori gioco il Move Forward, il partito che aveva dichiarato la volontà di allinearsi all’America, mentre conservatori e populisti concordano con Pechino in tema di diritti umani e di rivendicazione dei valori asiatici.

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