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La cassapanca con la chiave. Un estratto del romanzo inedito di Victoria Amelina

Victoria Amelina

Il piano per appoggiare le bambole, le foglie intarsiate e  quella serratura che poteva aprire a qualcosa di spaventoso o soltanto a una via di fuga. Il libro della scrittrice uccisa dai russi  intitolato in ucraino “Dim dlja Doma”, “Una casa per Dom”

Pubblichiamo un estratto del romanzo inedito di Victoria Amelina, intitolato in ucraino “Dim dlja Doma”, “Una casa per Dom”. La storia dell’Ucraina del XX secolo è al centro del romanzo e viene ripercorsa da Dom, un cane che racconta le vicende di una famiglia russo-ucraina. E’ complesso portare dietro la propria storia, è complesso trascinarla assieme a quella del proprio paese, assieme ai propri bagagli mossi da trasloco in trasloco alla ricerca del futuro. Dalla caduta dell’Unione sovietica è nato un nuovo mondo, al quale non è semplice adattarsi. A questo nuovo mondo va adattata anche l’identità di tutti i personaggi, di una famiglia, di un popolo. Alla cura e alla voce dell’identità ucraina, alla testimonianza, all’unicità, Victoria Amelina ha dedicato il suo lavoro.


Il calendario appeso alla parete dei Tsilyk è quello vecchio del 1989, ma io so che è il 1993. So anche che siamo in pieno inverno senza bisogno di guardare il calendario. 
Ho già capito tutto sulla nuova famiglia anche se non è passato nemmeno un anno. A volte mi sembra che loro parlino più con me che tra di loro. Mi sto abituando a loro, non è che li amo già ma ormai conosco bene questa gente strana. 
Sono arrivati a Leopoli negli anni ’70 e malgrado tutti i pregiudizi e le controindicazioni hanno visto che alla fine non era male questa città. Anzi è anche bella, con le aiuole di fiori rossi ovunque, vicino agli ospedali, ai consigli regionali e ai distretti della polizia. Le case assomigliavano a quelle polacche. E poi non piove così spesso. Si arrivava presto a casa dalle fermate dei tram e dei filobus. Il tram della via Gorodotska si sente solo al mattino e poi il chiasso della città inghiottisce tutti gli altri rumori. Ma tanto il camion della spazzatura, che svuota i bidoni sotto le finestre, ti sveglia due minuti prima del suono del primo tram. Gli alberi sono alti e frondosi, come d’altronde ovunque nell’Ucraina di Ivan. La gente… è come da tutte le parti. Anche se gli amici dicono che bisogna far passare del tempo. Bisogna far attenzione perché la città non è così semplice. 

– Accoglievano i fascisti con i fiori in mano, non so se mi spiego… Nazional…

Ma alla fine che differenza c’è? La loro casa sarà qui, ormai è deciso, siamo arrivati al capolinea. I Tsilyk scendono qui insieme a tutte le loro cose, valigie e scatole. Proprio qui.
La grande Ba ricorda bene quella sensazione: 
– Il capolinea, caro mio Dom, mi dice, il treno si è fermato e l’ho capito subito. 

L’appartamento di due stanze sulla Galana (all’epoca la via si chiamava così) era vuoto e pieno di luce. Quasi vuoto. Dicono che quella cassapanca solitaria, attaccata alla porta chiusa tra due stanze, aspettava proprio i nuovi proprietari. Una cassapanca grande e pesante, di ferro nero. Forse gli ultimi proprietari erano di fretta e per questo l’hanno lasciata qui. O forse il loro nuovo appartamento era troppo piccolo per una cassapanca così grande. O semplicemente non ce l’hanno fatta né a spostarla né a sollevarla.
Il vecchio colonnello, che all’epoca non era così vecchio, dopo aver pensato a lungo l’ha lasciata qui al suo posto. 

– Là sotto sarà rimasto un segno così grande che non andrà mai più via. 
Lasciamola qua. Peserà tanto quanto pesiamo tutti noi messi insieme.

– Forse sì, ma i soldati avrebbero potuto portarla via, ripeteva la moglie come un mantra anche a distanza di tanti anni, quando nell’appartamento erano tornate tutte e due le figlie con le nipoti e un barboncino molto grande. Ogni volta tirava fuori l’argomento per rimproverare il vecchio colonnello di aver perso l’occasione di liberarsene una volta per sempre. Il colonnello non la contraddiceva all’epoca, e non la contraddiceva adesso. Certo che i soldati potevano portar fuori tutto, potevano e possono. Anche Ivan faceva il soldato una volta. Sì, potevano portare fuori e dentro tutto quanto… 

Portavano dentro tutte le cose raccolte nei vari angoli del mondo socialista. I rotoli panciuti dei tappeti azeri e georgiani, i servizi di porcellana polacchi avvolti nei fogli della Pravda, le pile di libri, la collezione completa delle opere di Puškin, Dostoevskij, Lenin e Shakespeare e i vestiti e le scarpe nelle innumerevoli scatole di cartone e l’armadio tedesco bianco e gli scaffali fatti a mano e i letti di ferro come quelli nelle caserme. Tutto qua, non c’è stato il tempo per comprare altre cose, cosa vuoi farci… 

I mobili venivano sistemati intorno ai vecchi punti di riferimento, la cassapanca di ferro e una stufa bianca con il ventre nero, ricoperta di piastrelle bianche e crepate. Intorno a una cassapanca che non gli apparteneva e a una vecchia stufa stavano costruendo una vita nuova. Proprio qui.

– Capolinea, ripeteva la vecchia Ba, incredula anche vent’anni dopo. 
E io provavo a immaginarmi come questa gente si stava abituando a questa casa, come imparava ad esserne contenta. Come sceglieva i posti giusti per i servizi, le statuette, i libri e le scarpe con i tacchi alti. Il posto giusto che però alla fine si rivelava sempre temporaneo. Anche l’armadio tedesco, per quanto fosse pesante, veniva spostato in continuazione da una parete all’altra. Da soli, senza i soldati, sbuffando dalla fatica ma senza arrendersi mai. Riesco a vedere per terra i segni di quegli spostamenti. E solo la miope Ba spera che i segni non si vedano più. 

Forse la casa non riusciva ad accogliere i proprietari nuovi? O semplicemente i Tsilyk non sono abituati a vivere nello stesso posto per tanto tempo. E perché avrebbero dovuto esserne capaci? Non hanno mai disfatto tutte le scatole, c’era sempre qualcosa che rimaneva dentro aspettando il prossimo trasloco. 

Potevano spostare i mobili finché volevano ma la cassapanca rimaneva sempre dove l’avevano lasciata gli ultimi proprietari. 

Quando mamma Olia dopo il divorzio era tornata a casa dei suoi, perché insieme era più facile sopravvivere dato che il fiasco personale di Olia era capitato proprio durante il fiasco generale dell’economia, la cassapanca di ferro faceva da letto alla piccola Marusia. Sopra ci mettevano due coperte, e la porta tra le due stanze alla quale si appoggiava la cassapanca veniva coperta con un tappeto a fiori comprato, come diceva Ba, cent’anni fa in Azerbaigian e che ora finalmente serviva a qualcosa. Di giorno la cassapanca diventava un posto dove giocare. Qui vivevano le loro vite piene di drammi le bambole dagli occhi azzurri. Qui atterravano gli aerei di plastica chiesti al nonno o semplicemente presi dalla vetrina senza chiedere il permesso. 
Quando Marusia ci vedeva ancora, la cassapanca per lei era nera e poco interessante. Non sapeva di niente. C’era e basta. Nell’appartamento si potevano trovare cose molto più interessanti, per esempio quei pesci di porcellana con le bocche spalancate, il servizio di porcellana “Madonna” della ditta tedesca Kahla, un regalo carissimo della figlia primogenita, rimasta a sua volta senza marito. Il marito si era dato all’alcol dopo che la sua unità militare era scappata dalla Germania lasciandosi alle spalle le caserme e i sogni di comprare altri servizi. Tra le altre cose interessanti c’era anche il cucchiaio di argento monogrammato portato dal nonno proprio da Berlino, che coincidenza! 

A Marusia non era concesso di toccare tutti questi tesori. Poteva solo guardarli, quando ancora ci vedeva, oltre il suo riflesso nel vetro, mentre lo sgabello, preso sempre senza chiedere il premesso, le ballava sotto i piedi. Alla fine le cose proibite sono quelle più interessanti. E’ grazie alle proibizioni che ha potuto memorizzare tutte queste cianfrusaglie e può descriverle anche adesso nei minimi dettagli, sbagliando forse solo il colore dei vestiti delle donne seminude sui piatti del servizio “Madonna” (si deve avere ben poca familiarità con le leggi cristiane per chiamare così un servizio dorato tanto desiderato dalle donne sovietiche!).    
Quando Marusia ha smesso di vedere, ha scoperto molte più cose sulla cassapanca. La cassapanca adesso sembrava un’isola, la sua prima casa in questo improvviso e inspiegabile buio. Poteva studiarla toccandola con le mani finché voleva, e non le bastava mai. La sua parte alta aveva un disegno complicato, sembravano delle foglie che nessuno aveva mai notato prima. Forse erano di quercia come quelle sul soffitto. O erano di acero? Marusia non riusciva mai a decidersi su quale fosse l’albero giusto. Nemmeno gli adulti della casa avevano una risposta, anzi, si mettevano a litigare tra di loro sull’origine delle foglie. Ognuno vedeva qualcosa di diverso. E poi c’era quella costruzione quadrata al centro. L’ha trovata accarezzando per l’ennesima volta quel “coso” misterioso ma già ben conosciuto. Ma ecco che una volta il “coso” salta su senza alcun avvertimento facendo un suono forte…

– Come un cane che digrigna i denti, spiega Marusia spaventata. 

La bambina si è spaventata, si è messa a piangere, ha iniziato a percorrere il corridoio, urtando le pareti, facendo cadere dal chiodo il vecchio calendario, e alla fine è arrivata nell’altra stanza, dove la Grande Ba era seduta come al solito in una grande poltrona. 

– Piano, piano piccola, non è niente, è solo la serratura, ha detto Ba ispezionando la cassapanca. 
– Per la chiave? 

La bambina non aveva mai immaginato che questo strano oggetto sul quale lei fa sedere le sue bambole potesse avere qualcosa all’interno. Cosa c’è lì dentro? Forse ci abita qualcosa e di notte, mentre lei dorme, anche quel qualcosa dorme, oppure non dorme per niente. 

Marusia non è del tutto convinta, magari ci abita qualcuno molto spaventoso, o forse, chi lo sa, là dentro c’è un passaggio segreto verso altri paesi, non è necessario che siano paesi fiabeschi. Potrebbe essere che dei banditi fuggitivi ci hanno fatto un tunnel verso la Polonia, o l’Austria, o la Russia, o perfino l’America, o addirittura nello spazio verso altri pianeti. 

Riesco proprio a immaginarmelo. Sono stati in tanti a raccontarmi questa storia. Le tremano le mani ma Marusia trova comunque il coraggio per convincersi che la serratura esiste davvero. Il piccolo indice di Marusia non solo ci entra ma ci sprofonda completamente. Allora la chiave dovrebbe essere proprio enorme! 

– Marusia, attenta a non incastrarti il dito. Chi è che lo tira fuori dopo? 

Non è facile spaventare una bambina, anche a volere insistere 

– Nonna, dai apriamola!, ed ecco che non c’è più nessuna traccia dello spavento. 

– No, no Marusia, cosa stai escogitando? La cassapanca non si apre. Adesso c’è anche il nonno che si intromette:

– La chiave non c’è! 

Il colonnello trova sempre il momento giusto per intromettersi. Fa solo finta di non sentire e di non accorgersi di niente volando sulle sue radioonde. Tutti insieme all’improvviso sono diventati intrattabili. La chiave non c’è e basta. Ma la nonna diceva che c’era da qualche parte. L’ha appena detto…

– Ma la chiave sarà andata persa, papera! Ancora prima che ci trasferissimo qui. 
Ovviamente Marusia non ci ha creduto e non ci crede nemmeno adesso. Se c’è una serratura allora c’è una chiave. E dovrebbe essere qui da qualche parte. Alla sua età Marusia non ha mai incontrato un indovinello senza una soluzione, una domanda senza una risposta e una serratura senza una chiave. Mai, mai, e poi mai! Aveva ben sei anni, l’età giusta per capire queste cose. 

La bambina è convinta che la cassapanca appartenga alla vecchia Ba, perché là dentro ci sono nascosti bellissimi vestiti di pizzo di quei tempi antichi in cui i ragazzi erano cavalieri e le ragazze principesse e tutti quanti vissero felici e contenti. Quei vestiti – perché ci devono essere dei vestiti, a meno che non ci sia nascosta la sua vecchiaia là dentro – che indossava ai ricevimenti reali ballando con il nonno. La Grande Ba sorride triste. Forse le sembra di non avere fatto in tempo a vivere il suo tempo, lasciamo perdere i re e i loro ricevimenti…

Ma forse nessuno fa in tempo a vivere queste cose, né Lilia Tsilyk, la Grande Ba, né i veri proprietari della cassapanca, che l’hanno lasciata qui per qualche motivo, né quelli che ci abitavano dopo di loro e non l’hanno mai buttata via. Sarà stata fin troppo pesante. I Tsilyk hanno ricevuto i documenti per questo appartamento solo alla fine degli anni ’70. 
– I tempi sono questi, sospira la Grande Ba. Erano difficili allora, e adesso lo sono di nuovo.

E io penso che danno di nuovo la colpa ai “tempi”. Un colpevole davvero molto strano.

E poi i Tsilyk non possono lamentarsi. I Tsilyk sono sempre stati fortunati nella vita. 

Le cose che so sono queste. Ai “tempi” dell’infanzia della Grande Ba il mondo ha attraversato una guerra e Ba è felice ancora oggi che questa guerra non l’abbia toccata direttamente e ha portato via i genitori degli altri bambini. L’uccello nero non ha notato Lilia, che all’epoca non era ancora così grande, anzi, era molto piccola e magra. Tutta qua la felicità. Quali vestiti di pizzo, quali ricevimenti reali? La guerra era passata, e insieme alla guerra era passato tutto quello che è stato dimenticato dal silenzio. Tutto è passato oltre senza toccare i Tsilyk. L’uccello nero ha lasciato vivere anche il bambino Vania, nell’est della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Quando la bambina Lilia era diventata una donna, non lo lasciava mai andare alle guerre degli altri. O forse si illudeva soltanto di non lasciarlo andare? I militari vanno o volano sempre da qualche parte. Dicono che vanno al poligono o a fare le esercitazioni o semplicemente a spostare un aereo da una parte all’altra del paese… E tu come fai a sapere dove vanno davvero? Non sei un cane che sa riconoscere gli odori dopo il loro ritorno. Dove fanno quelle esercitazioni? A che scopo le fanno? Chi mirano i piloti sovietici quando sono a bordo di quello stesso uccello nero? 

Mirano… Il colonnello lo ripeteva spesso, sin dal primo incontro con Lilia, e dicono che lo ripeta ancora oggi:

– Il cognome Tsilyk proviene dalla parola “tsilyty”, cioè mirare. 

Il tenente, capitano, maggiore, colonnello Tsilyk non sbaglia mai la mira, dice sorridendo. E poi comincia a raccontarmi una nuova versione dei fatti e lo fa così spesso che mi sono ormai annoiato ad ascoltarla. Non saprei a che versione credere ormai. 

Vasyl, il suo miglior amico dai tempi della scuola militare, originario di qualche paesino di minatori, stuzzicava spesso Ivan: “Tsilyk non ha niente a che fare con il verbo mirare!”. 

Tsilyk è un minerale massiccio, che durante la lavorazione del giacimento resta integro, non si spezza. Quelli di Donetsk ne capiscono qualcosa. 

– Integro! Pieno del minerale grezzo, capisci?, urlava Vasyl ubriaco. Integro come una donna che non ha ancora conosciuto l’amore.
– Stai zitto, Vasia! Ma vaf…
– Dove? Dove mi mandi? Forse a casa? E tu ci vieni con me? Rideva Vasyl come se il suo paese e il paese di Ivan, dalle parti di Kharkiv, fossero in due vie parallele. 

Tutti e due parlavano quasi con la stessa cadenza, ma solo tra di loro, quando non li sentiva nessuno. E ogni volta dopo qualche bicchierino Vasia iniziava a scherzare sui Tsilyk. Forse perché gli mancava casa sua, insieme alle lettere delle sorelle gli arrivava il mondo delle miniere, delle discariche e dei fiori bianchi sugli alberi vicino casa. 

Esisteva anche una classificazione specifica di questi stupidi minerali grezzi, minerali antincendio, minerali protettivi…

– Ma sarà meglio proteggere un giacimento con qualcosa di davvero solido e non con un minerale, rideva di nuovo Vasyl. Perché tu, caro mio Tsilyk, che barriera sei? Il calcestruzzo funziona meglio di te! Quindi vola in pace caro mio! Il Partito sovietico ci penserà al posto tuo! Mentre tu voli, ci pensano loro a sistemare le cose con il calcestruzzo. 

– Vasia, esistono anche i minerali anti chiacchiere? Esistono o no? Perché mi sembra che stai un po’ esagerando! Guarda che ti sentiranno! 

Però c’era poco da fare con Vasyl da ubriaco ma anche da sobrio. Meno male intorno gli ufficiali erano nelle stesse condizioni e facevano gli stessi discorsi, lasciando trapelare vari segreti, privati e di stato, sulla grande guerra passata e sulle nuove piccole guerre e su tutte le cose che puoi far finta di non vedere a terra ma sulle quali è sempre difficile chiudere un occhio quando sei in cielo. 

– Un mio amico nel ’62 faceva il servizio militare nella zona di Rostov… A Novo
erkask… Diceva qualcuno pensando di parlare a voce bassa.

E poi partiva zitto zitto…ssst….ssst… Perché piano? Il capo sta dormendo o fa solo finta di dormire? Hanno fatto bene a fucilarlo! 

– E mio fratello era a Praga…
Zitto, zitto…

Solo Vasyl di Donetsk continuava sempre con la stessa storia. Tsilyk, il minerale, è l’ultima speranza, è l’ultimo rimedio. Se non c’è altro modo per proteggere il giacimento, ci rimane solo quello. 

– Io non sono rimasto a casa, finisce il suo discorso il mio vecchio colonnello, ma stento a capire di quale casa stia parlando di preciso. Il suo sangue sa di colpa.

Domani il colonnello parlerà di nuovo, friggerà di nuovo le patate per tutta la famiglia nella padella grossa e nera, chiuderà la porta con la scusa di non far arrivare l’odore di fritto nelle camere e parlerà di nuovo. Con quella cadenza della sua città natale mischiata con le citazioni dai film sovietici sui piloti e con i termini del manuale di aerodinamica. Parlerà da solo ma forse anche un po’ con me. Perché a volte lo sentirò dire:

– Eh caro Dom, non capisci niente tu, tontarello! 

E io appoggerò il muso sulle zampe e farò finta di non ascoltarlo. Immaginerò come dalla terra estraggono gli antichi resti – metalli, petrolio, carbone – e anche dopo l’estrazione rimangono integri e odorano dal profondo. No, non lo sto ascoltando, anzi chiuderò perfino gli occhi. L’indifferenza è uno dei pregi dei cani.


(Traduzione di Yaryna Grusha, 
revisione di Maria Grazia Bartolini)    
       

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