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La democrazia iconoclasta

I monumenti in America? Sono divisivi da sempre. Un libro di Arnaldo Testi

Giulio Silvano

Dalla morte di George Floyd in poi si è assistito a una furia iconoclasta contro migliaia di opere. Ma a bene vedere anche quando furono erette molte statue vennero sostenute solamente da una parte

Nel maggio del 2020, dopo l’uccisione di George Floyd e il revival del movimento Black Lives Matter, negli Stati Uniti vennero distrutti o impiastricciati centinaia di monumenti. Una statua di Cristoforo Colombo, visto come volto internazionale del colonialismo, il 4 luglio venne buttata nel porto di Baltimora. Alcuni monumenti furono rimossi dalle amministrazioni locali, cedendo alle pressioni dei manifestanti, altri vennero spostati preventivamente per evitare che venissero distrutti, altri ancora messi in magazzino per evitare che i dimostranti tirandoli giù, presi dalla foga, si ferissero con una spada o un cappello di bronzo troppo appuntito. A parte il navigatore genovese, le vittime furono soprattutto statue e monumenti di personaggi del sud, vari militari dell’esercito confederato, generali o semplici soldati che non avevano accettato l’emancipazione proposta da Lincoln e dagli yankee, persone con un passato schiavista. Da allora università e municipalità sono molto più attente ai personaggi che vengono onorati nei loro spazi, quell’estate di decapitazioni e bombolette spray ha creato un precedente che porta alla pavida prevenzione, alla paura che qualcuno prima o poi si arrabbi.

 

Ma analizzando l’esagitata iconoclastia di quella stagione, che ha messo in dubbio la solidità della memoria materiale, si tende a fare un errore storico. Si tende cioè a pensare che quando queste statue sono state erette, tutti fossero d’accordo con la celebrazione di una determinata figura, e che la sua aura rispecchiasse lo Zeitgeist comune. Il libro del professor Arnaldo Testi, I fastidi della storia, edito dal Mulino, ci fa vedere che non era così, e che anche durante la loro erezione, molti monumenti erano voluti solo da alcune parti, e che spesso design, costruzione, innalzamento e inaugurazione di una statua potevano essere vere e proprie azioni politiche, atti verso altre fazioni, dichiarazioni di potere. “La statua di un personaggio pubblico non commemora o celebra la persona, ma la causa a cui è associata e a cui deve notorietà”, scrive Testi. Così se il mastodontico Lincoln Memorial del 1922 rispecchia il “lungo predominio nazionale repubblicano”, il più bucolico Jefferson Memorial, nel suo simil pantheon, finito nel 1943, diventa una celebrazione del potere democratico (Franklin Delano Roosevelt era presidente da dieci anni) – una successione bipartitica che oggi troviamo sulle calamite in vendita al National Mall. E pensare che il presidente John Quincy Adams, dopo che il paese era stato fondato sulle macerie della statua distrutta del tiranno re Giorgio, scriveva nel 1831: “La democrazia non ha monumenti, non conia medaglie, non porta la testa di un uomo sulle monete, la sua stessa essenza è iconoclasta”. Ma questo era prima che gli Stati Uniti, in particolare dopo la guerra civile, diventassero un vero museo a cielo aperto di memoriali, lapidi, obelischi, targhe, busti e mausolei. Ogni piazza, ogni giardino, ha bisogno del suo soldatino di bronzo, e ne vediamo l’origine nel libro di Testi, le diatribe precedenti all’erezione, da Rosa Parks ai volti del monte Rushmore, anche seguendo le vere e proprie mode celebrative – pensiamo ad esempio a Milano al trend della statua femminile per compensare i numeri di quelle maschili, e via Margherita Hack e via Cristina Belgioioso. Interessante poi vedere il lavoro fatto dagli immigrati italiani per celebrare i propri eroi a New York, fuori dai confini di Little Italy, come il toscano Carlo Barsotti che si dedicò a raccogliere fondi e a convincere la città per tirare su statue a Garibaldi, Giovanni da Verrazzano, Dante e Verdi – e non sappiamo se anche queste, come Colombo, prima o poi daranno fastidio a qualcuno.

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