il ritratto

Bill Burns, il capo della Cia che ha costruito la fiducia tra Washington, Kyiv e gli alleati

Paola Peduzzi

L'antidoto di Biden a propaganda e sospetti: un diplomatico che ha lavorato a lungo in Russia e ha capito presto che Putin non sentiva alcuna pressione quando gli americani gli dicevano che avrebbe pagato un prezzo molto alto se avesse invaso l’Ucraina

Quando Bill Burns, il direttore della Cia, andò a Mosca nel novembre del 2021, parlò da un telefono del Cremlino per un’ora con Vladimir Putin, che in quel momento era a Sochi, e tornò a Washington con un messaggio: “Il mio livello di preoccupazione si è alzato, non abbassato”. Sessantasette anni, diplomatico di professione, una vita dentro ai governi americani, da Reagan fino a Joe Biden (un’unica pausa: durante l’Amministrazione Trump), Burns ha lavorato a lungo in Russia, è stato anche ambasciatore negli anni in cui Vladimir Putin si faceva prendere le misure dal mondo (mostrandosi come non era), e ha capito piuttosto presto che la Russia non sentiva alcuna pressione, figurarsi deterrenza, quando gli americani le dicevano che avrebbe pagato un prezzo molto alto se avesse invaso l’Ucraina.

 

Da quell’inverno, Burns ha iniziato a costruire la strategia per cucire insieme gli alleati occidentali, condividendo le informazioni, valutando insieme i rischi, smantellando le riluttanze e componendo una solida e duratura difesa di Kyiv dall’aggressione russa. C’è chi dice che un capo della Cia non abbia mai avuto i poteri che ha Burns, che il rapporto molto stretto con Biden gli ha dato uno spazio inusitato, e in effetti ha fatto in due anni più di trenta missioni, compresa una dal leader dei talebani dopo il catastrofico ritiro dall’Afghanistan. Una settimana fa il Financial Times ha fatto sapere che Burns è stato di recente (le sue visite si scoprono sempre con qualche settimana di ritardo, ed è un sollievo perché l’intelligence live sui social non è affatto efficace) anche a Pechino, il più alto in grado dell’Amministrazione americana finora e anche uno tra i più falchi: questo signore brillante e schivo è convinto che la fiducia degli alleati si ottenga  parlandosi e che le minacce possano essere disinnescate allo stesso modo, lasciando aperti i canali di comunicazione. 

 

In questo preciso momento della guerra russa in Ucraina, la fiducia è un elemento decisivo. Le azioni di sabotaggio dentro i confini russi ideate dall’Ucraina, i leak dei documenti riservati finiti su Discord e le fonti anonime che parlano con i media fanno spesso intendere che qualcosa, tra Kyiv e Washington, si sia incrinato. Così come nelle settimane di attesa della controffensiva ucraina, continuavano a girare voci sullo scetticismo americano: se le cose non vanno bene, il  sostegno occidentale sarà meno determinato. Il tempismo di questo malessere è tremendo: l’esercito ucraino ha iniziato una controffensiva sparsa e quasi di ricognizione da pochi giorni, ma intanto il crollo della diga nella regione di Kherson, nel sud, sta causando non tanto il rallentamento dell’avanzata ucraina come si augurava Mosca, quanto una nuova crisi umanitaria in un paese che oltre che occupato e bombardato oggi è anche in parte sommerso. E’ presumibile che qualche discussione facendo la  voce grossa ci sia stata, ma gli architetti dell’alleanza occidentale come Burns hanno lavorato proprio perché in contingenze come queste – l’emergenza, la controffensiva – il rischio di dimenticarsi cosa c’è in gioco e il prezzo di un sospetto siano ridotti a zero.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi