Giorgia Meloni a Tunisi con il presidente Kais Saied (foto LaPresse)

L'ondata di migranti

Della visita di Meloni a Tunisi non resta che una finta conferenza stampa

Luca Gambardella

Nessun risultato sul prestito del Fmi. Saied ringrazia per gli sforzi italiani, ma dice che accettare i soldi è come quando i "medici prescrivono farmaci senza prima diagnosticare la malattia”. Mercoledì arriva il premier libico Dabaiba a Roma

Alla fine ciò che resterà della visita di Giorgia Meloni martedì a Tunisi sarà la conferenza stampa senza giornalisti inscenata al termine del vertice con il presidente Kais Saied. Con tanto di sorrisi, leggio e microfono, la premier si è rivolta a una platea immaginaria, a dare l’idea di un incontro con la stampa che in realtà non c’è mai stato e che altro non era che un video-messaggio ripreso con il cellulare, con un’inquadratura sbilenca e poche battute lette rapidamente. Poco prima, lo staff della premier aveva tenuto a sottolineare come l’incontro fosse andato bene, oltre i canonici spazi istituzionali per concludersi cordialmente davanti a un caffè, dove Meloni e Saied avrebbero scoperto persino di avere “un buon feeling”. I due hanno parlato  di migranti e cooperazione economica ed energetica, ma hanno fatto attenzione a lasciare fuori dal colloquio le questioni dei diritti umani e dei timori della comunità internazionale per la deriva autoritaria del paese.

 

    

Eppure sono proprio questi i punti dirimenti per sbloccare le trattative per il prestito da quasi 2 miliardi di dollari con il Fondo monetario internazionale (Fmi). A certificare il nulla di fatto del vertice è stato lo stesso Saied, che ha paragonato “le imposizioni” del Fmi a “medici che prescrivono farmaci senza prima diagnosticare la malattia”. Nonostante i tentativi di Meloni, le resistenze di Saied rimangono e vertono proprio sul non volere cedere a quello che definisce un ricatto economico “neocoloniale” dell’occidente. Buona parte dei tunisini è con lui e si oppone alle riforme richieste dal Fmi, motivo più che sufficiente perché il presidente-dittatore abbia congelato l’accordo. 

 

  

A Tunisi, Meloni ha portato in dote gli sforzi profusi in questi mesi dall’Italia per provare a convincere Ue e Stati Uniti a fare qualche concessione. E’ stato tutto vano, ma Saied ha comunque apprezzato l’impegno: “Meloni è una donna che dice a voce alta quello che gli altri pensano in silenzio”, ha detto. Solo che “gli altri” la pensano molto diversamente dall’Italia, soprattutto su come sbloccare il prestito del Fmi. Lo scorso aprile era attesa a Tunisi una delegazione guidata dalla commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, con i ministri dell’Interno di Italia, Francia e Germania. Alla fine non se ne fece nulla, perché le divergenze erano troppe. Johansson si recò a Tunisi da sola, seguita qualche settimana dopo da Matteo Piantedosi, anche lui per conto proprio. L’Italia propone di dare una tranche del prestito subito e il resto a riforme fatte. Un’ipotesi che a Bruxelles, ma soprattutto a Washington da dove arriverebbe gran parte del denaro, giudicano troppo fantasiosa. Il ragionamento dell’Ue e degli Stati Uniti è semplice: se a un paese gigantesco come l’Egitto che chiedeva in prestito 14 miliardi di dollari ne abbiamo dati appena 3, concederne 2 “sulla fiducia” alla Tunisia, molto meno strategica e per di più in piena deriva autoritaria, è fuori discussione al momento. Il timore dell’Italia è rivolto all’estate, quando la tenuta dell’economia tunisina sarà al limite e l’alta pressione porterà al picco di sbarchi dei migranti. I numeri sembrano destinati a superare quelli della crisi del 2017. Finora si contano già 51.738 arrivi, circa la metà rispetto a quelli registrati in tutto il 2022.

 

Intanto, è atteso mercoledì a Roma il premier libico Abdulhamid Dabaiba. Anche con lui si parlerà di economia e migranti, delle possibilità che il paese possa arrivare, un giorno non meglio definito, a elezioni. Solo il mese scorso Meloni aveva accolto a Palazzo Chigi il rivale di Dabaiba, il leader della Cirenaica Khalifa Haftar, che controlla con le sue milizie alcune rotte dei migranti che partono dall’est del paese. Sia il generale sia il premier di Tripoli chiedono altri soldi e mezzi a Roma e all’Ue, innescando un gioco al rialzo che rende l’Italia più ricattabile che immune alla grande ondata di arrivi dei migranti prevista per l’estate. Forse però la visita di mercoledì sarà l’occasione giusta per chiedere conto al nostro alleato libico dell’accordo raggiunto da poco con Mosca per l’imminente apertura dell’ambasciata russa a Tripoli. Una mossa preoccupante che lascia  a Vladimir Putin una leva diplomatica notevole anche in quel pezzetto di Libia dove fino a ieri non aveva ancora voce in capitolo. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.