Foto di Thibault Camus, AP Photo, via LaPresse 

il mondo in subbuglio

Si svegliano le piazze. Miti, bandiere e mitomanie delle rivolte

Stefano Cingolani

L’occidente assediato dalle proteste. Dalla Francia a Israele, dalla Germania al Nord America. C’è la folla che insegue Montesquieu e quella che invoca Poujade. In Italia prevalgono le tentazioni di Landini

Un canto, o forse un  grido, si leva dal cuore dell’occidente: avanti popolo. Senza bandiera rossa, questa volta, ma innalzando vessilli a stelle e strisce o con la stella di David; quelli blu, bianchi e rossi della République oppure con le bande nere, gialle e rosse di Weimar. Il popolo c’è, parla con la sua voce o meglio con le sue voci, canta in lingue diverse un’unica melodia, e torna ad esprimersi nel luogo che lo ha sempre visto protagonista, da Atene in poi: la piazza. Altro che agorà digitale: place de la Concorde dove Madame la Guillotine tra una folla plaudente tagliò la testa al sedicesimo re Luigi. Altro che parlamenti, partiti, governi costituzionali: battaglia sugli Champs Elysées, marcia sul Campidoglio, presidio del Reichstag, assedio alla Knesset. La moltitudine diretta da una sola mente determina ancora i poteri degli stati, come scriveva Baruch Spinoza?

È quel che vediamo sugli schermi da settimane, è il messaggio che ci arriva dai titoloni dei giornali, è il respiro del popolo sovrano che lì per lì aveva rallegrato i nazional-populisti per poi raggelare il loro sangue, perché quando la massa si mette in marcia non si ferma, così dice la storia, se non con i cannoni. Non ci si può sottrarre al fascino romantico dell’uomo in rivolta, e un’ebbrezza estetica sembra travolgere il circo mediatico-politico mentre il Grande Mago scende in pista con rullio di tamburi e squilli di fanfare. Ma è davvero così? 

Per oltre un secolo, da Gustave Le Bon in poi, s’è fatta strada la convinzione che le folle siano mosse da forze pre-razionali – l’inconscio secondo Sigmund Freud – le quali rendono “l’uomo come particella della massa, psichicamente anormale” (Carl Gustav Jung). Forse è troppo, ma certo lo fanno somigliare “all’ipnotizzato nelle mani dell’ipnotizzatore” (Le Bon). Nonostante la sua forza distruttiva o le pulsioni anti sistema, la “folla psicologica”, ha scritto lo storico Piero Melograni, “possiede irriducibili istinti conservatori, un rispetto feticista per le tradizioni, un orrore inconscio per le novità (e Mussolini propugnò una politica conservatrice travestita di populismo)”.

Tutte caratteristiche che troviamo oggi in questo ritorno della piazza come soggetto della politica. Ma attenzione ai singoli tratti distintivi, perché oltre il rumore di fondo, c’è piazza e piazza. C’è quella che in Nord America ripropone dopo due secoli e mezzo la frattura tra libertari e federalisti i quali insieme fecero la prima costituzione democratica per dividersi subito dopo. C’è la piazza “costituzionalista”, quella di Montesquieu che rivive in Israele, mentre in Francia imperversa la folla poujadista che ci porta i richiami della Bastiglia, molto diversa dalla piazza socialdemocratica tedesca, quella della cinghia di trasmissione dal sindacato al partito.

E le piazze d’Italia? Silenti, immote e deserte come nei quadri di Giorgio De Chirico oppure in trepida attesa? Dove si nascondono le minoranze rumorose che hanno occupato anche le piazze mediatiche vecchie e nuove? Dove sono i No vax, zittiti dal successo dei vaccini o dagli incendiari politici che si sono ritrovati quasi per incanto a dover gestire la sanità sotto stress senza nemmeno i soldi dell’Europa ai quali far ricorso perché il Mes, come si dice, è un attentato alla Nazione? Balneari e ambulanti aspettano solo un fischio.

I No Tav, No Triv, No Tap, i No Bridge (sullo Stretto), i No Min (le miniere delle terre rare o dei materiali strategici) preparano le munizioni e rimpolpano le salmerie. C’è sempre la risorsa di ultima istanza, cioè la piazza sindacale, tuttavia oggi è divisa tra i realisti (la Uil), i contrattualisti (la Cisl), i delusi (l’Ugl nella stanza dei bottoni), i depressi e pur sempre irriducibili (i Cobas), gli incerti (la Cgil cerchiobottista). L’incognita più consistente riguarda proprio il sindacato guidato da Maurizio Landini attratto da due opposte tentazioni.

La prima è stabilire un rapporto diretto legittimando Giorgia Meloni da sinistra per non farsi spiazzare dalla Cisl; la seconda è giocare di sponda con il Pd di Elly Schlein e perseguire l’antico sogno di una cinghia di trasmissione con il sindacato ala sociale e arma contundente del partito. Se prevarrà, il pragmatismo laburista potrà ottenere più di quel che non si immagini (al di là del salario minimo per legge) da una destra malmostosa al proprio interno e in cerca di consensi dall’esterno: divisi sui valori, ma uniti sugli interessi il primo dei quali è governare il più a lungo possibile. Sono tutti interrogativi in attesa di risposte, anche se sembra impossibile che l’Italia anarcoide non scenda in piazza, da sinistra oggi come da destra ieri e forse di nuovo domani. A meno che le piazze italiane, proprio come quelle dei pittori metafisici, non siano immaginarie. 

L’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021 ha scosso la fiducia nella democrazia in America. Ma era l’ultimo e clamoroso atto di un processo profondo e di più lunga lena. Donald Trump ha fatto il fuochista, le braci però bruciavano già da molto tempo. Gli americani non si riconoscono più nei loro valori, lo dimostra un’inchiesta condotta dal Wall Street Journal e Norc, una delle maggiori organizzazioni di ricerca sociale indipendenti, che fa capo all’Università di Chicago. Patriottismo, fede religiosa, famiglia e figli, tolleranza, le priorità che per intere generazioni avevano segnato il carattere nazionale hanno ridotto bruscamente la loro importanza nei venticinque anni che separano dall’ultima ricerca del genere.

L’America si è europeizzata. I giovani non accettano più le priorità dei loro padri. Il paese è spaccato politicamente su trend sociali come le divisioni per razza o genere e sull’uso dei pronomi neutri. Il patriottismo è ritenuto importante dal 38 per cento degli intervistati, nel 1998 erano il 79 per cento. Per la religione troviamo il 39 per cento oggi e il 62 per cento venticinque anni fa. La tolleranza verso gli altri era un must (l’80 per cento) oggi lo è molto meno (58 per cento). Che cosa ha determinato questo drammatico rifiuto dei valori liberali che avevano tenuto uniti gli americani?

Secondo l’indagine, l’11 settembre 2001 ha infranto la sicurezza e l’invulnerabilità del paese, poi è arrivata la grande crisi finanziaria del 2008 e la lunga recessione, ma c’è anche l’ascesa di Donald Trump. L’unica priorità cresciuta nell’ultimo quarto di secolo è “money”: il denaro era importante per il 31 per cento, un valore basso per chi vede gli States come il regno di Mida, ma oggi lo è per il 48 per cento degli americani. Anche questo indica che prevale la ricerca di sicurezza. L’incriminazione di Trump aggiunge benzina al falò di una nazione conflittuale come poche volte nella sua storia.

È vero, gli Stati Uniti così come li conosciamo sono nati da una sanguinosa guerra civile e la bandiera confederata, quella degli stati ribelli del sud, sventolava nelle mani dei sacrileghi saccheggiatori del Parlamento. Tuttavia il Novecento aveva lenito molte ferite. Le piazze per ora tacciono, ma dal suo buen retiro in Florida tutti si attendono che l’ex presidente faccia brillare le mine. 

La bandiera della liberal-democrazia, stropicciata in America, garrisce in Israele. Da Tel Aviv a Gerusalemme, dagli aerei ai treni, dai sindacati fino ai vertici dell’esercito, mai si era vista una mobilitazione del genere contro un governo legittimamente eletto che, secondo gli oppositori, compie un atto illegittimo e mette in discussione la carta costituzionale, cioè la legge superiore alla quale la stessa sovranità popolare si deve sottoporre, almeno finché non decide di cambiarla con maggioranze e procedure che presuppongono un consenso ampio e non partigiano. Così funziona nei regimi liberal-democratici, non nelle “democrazie popolari”, nelle “democrature”, nelle “autocrazie”, insomma in tutti i sistemi in cui la dittatura della maggioranza prelude alla dittatura senza aggettivi. 

La posta in gioco è una riforma della giustizia che attenta all’indipendenza del potere giudiziario in Israele. Le proposte più controverse sono soprattutto tre, accomunate dal rischio che venga  indebolita l’autonomia della Corte suprema, sottoponendola al controllo del potere politico. La prima modifica consentirebbe al parlamento di ribaltare le decisioni della Corte con una maggioranza semplice di 61 voti sui 121 seggi: uno scenario abbastanza agevole per la destra di Netanyahu, forte di 64 seggi. Una seconda proposta priverebbe la Corte del potere di controllare e rivedere la legalità delle cosiddette leggi fondamentali, i provvedimenti che equivalgono alla costituzione e ne rappresentano la “ossatura” fondamentale. Il terzo cambiamento interviene sul modo in cui sono scelti gli stessi membri del tribunale supremo.

Le regole attuali prevedono che i magistrati vengano selezionati da un panel indipendente, formato da figure politiche e giudici già al servizio nella Corte. La riforma attribuisce un potere maggiore al governo, incrinando il principio di parità sancito oggi. Insomma Israele, timido e ambiguo verso la Russia, guarda all’Ucraina e alla Polonia? Ci sono poi i “conflitti d’interesse” come leggi ad personam per scagionare Netanyahu nei processi che lo coinvolgono. O la difesa dei privilegi concessi agli ultra ortodossi a cominciare dall’esenzione della leva obbligatoria. Il governo, invece, contrappone l’urgenza di ridimensionare i poteri “spropositati” della Corte, accusandola di perseguire il premier per ragioni politiche e tenere sotto scacco l’autorità del Parlamento.

Si apre ormai la quindicesima settimana di proteste e la partita è quanto mai incerta. La legge che doveva essere varata il 23 marzo è stata rinviata alla sessione della Knesset dopo Pesach, la Pasqua ebraica, la settimana che si è conclusa giovedì due giorni fa. La decisione è stata presa da Netanyahu in nome della “responsabilità nazionale” e per evitare “una guerra civile”. Ma la riforma della giustizia resta sul tavolo, anche se il primo ministro è disposto ad alcuni “aggiustamenti”. Il 27 marzo scorso il capo del governo ha parlato a un paese paralizzato da uno sciopero generale come non si era mai visto nella storia recente di Israele. Il licenziamento del ministro della Difesa Yoav Galant, reo di aver chiesto un pausa nell’iter della riforma pur condividendone i contenuti, aveva dato fuoco alle polveri.

Centomila persone hanno assediato la Knesset a Gerusalemme, mentre la destra ha risposto con una contro manifestazione sempre davanti al Parlamento. Netanyahu ha concordato la pausa con il suo ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir (Potenza ebraica), pronto ad aprire la crisi di governo. In cambio ha concesso l’esame della proposta cara a Gvir di una guardia nazionale civile composta da volontari alle dirette dipendenze del ministro il quale, così, potrebbe bypassare le forze armate dello stato (polizia, guardia di frontiera, esercito, e in particolare Shin Bet, la sicurezza interna). 

Tra gilet gialli e pensioni la Francia è attraversata da una delle sue micidiali jacquerie. Cominciarono nel 1358 con la rivolta contadina così chiamata dal dispregiativo “Jacque Bonhomme”, con il quale era apostrofata la gente di campagna. Da allora a oggi nell’uomo francese si rispecchia l’uomo in rivolta di Albert Camus, ma anche l’uomo rivoluzionario, quello che vuole “un mondo nuovo”, mentre l’uomo ideale issa “la dea ragione” in mezzo al sangue dell’uomo reale. Nell’autunno del 1953 appare sulla scena un personaggio semi sconosciuto, padre, o forse nonno, degli odierni rivoltosi. Il suo nome è Pierre Poujade, ha 33 anni è nato da una famiglia della piccola borghesia di provincia occitana, durante la guerra ha aderito al regime collaborazionista di Vichy prima di raggiungere Algeri come aviatore.

Dopo il 1945 aveva aperto una cartoleria a Saint-Céré dove era nato e tirava avanti alla meno peggio come tutti i piccoli commercianti che avevano approfittato del mercato nero e dell’inflazione post bellica. Quando il governo francese decide di aprire alla concorrenza e risanare le finanze pubbliche, una delle scelte obbligate è mettere naso nella contabilità delle piccole imprese agricole, artigianali e commerciali che evadono in massa le imposte. Da Parigi arrivano gli ispettori fiscali e scatenano “la grogne”. Il malcontento sale fino a diventare protesta e Poujade entra in scena fondando l’Unione di difesa dei commercianti e degli artigiani. Il movimento si dichiara apolitico, né di destra né di sinistra, ma lo avvicina il partito comunista desideroso di cavalcare l’indignazione popolare.

Dopo pochi mesi l’Udca rivela la sua natura mettendo sotto accusa non solo i ricchi, ma la finanza ebraica, il regime parlamentare, l’abbandono del colonialismo, il predominio parigino, l’élite delle grandi scuole, dall’Ena al Polytechnique dove i laureati portano la feluca e lo spadino. L’ebreo Pierre Mendès France, resistente con il generale de Gaulle, primo ministro nel 1954, diventa il bersaglio preferito. Alle elezioni del 1956 l’Unione si presenta con il nome Unità e fraternità francese (Uff) e conquista 52 seggi all’Assemblea nazionale. Tra questi c’è un sottotenente della Legione straniera che aveva perso un occhio in Algeria, il suo nome è Jean-Marie Le Pen, 28 anni, il più giovane tra gli eletti; sarebbe rimasto in Parlamento per un buon mezzo secolo. 

Il poujadismo mise paura all’élite francese, il partito scomparve due anni dopo con la presa del potere da parte di Charles de Gaulle. La maggior parte dei parlamentari confluì nel partito del generale, il Rassemblement du peuple français (Rpf), alcuni finirono nel Pcf. Poujade è morto nel 2003, ma il suo spirito ha permeato, quindici anni dopo, il movimento dei gilets jaunes, nato anch’esso contro “l’oppressione fiscale” (l’aumento delle accise sui carburanti), diventato il veicolo del malessere, ma anche dell’avversione ideologica alla “mondialisation”, alle liberalizzazioni, all’apertura dei mercati. Antisemita (il filosofo Alain Finkielkraut un facile bersaglio), anti-intellettuale, anti-élite, anti-Macron. I gilet gialli piacciono ai Cinque stelle – Luigi Di Maio corre a solidarizzare – piacciono ai lepenisti, non dispiacciono alla sinistra radicale, spiazzano i socialisti ormai in disarmo. Durante la pandemia accendono i falò dei No vax, ma restano sotto traccia, adesso tornano in superficie contro l’aumento dell’età pensionabile. 

Questo filo rosso-nero che porta da Poujade a Mélenchon non convince quella sinistra sempre ansiosa di annettersi l’arena del popolo in armi. Ma guardando con distacco alla dinamica politica francese, comprendiamo che attorno a due anni di lavoro in più (dai 62 ai 64 anni nel paese delle 35 ore che non hanno ridotto l’orario di lavoro, ma allungato le vacanze) si gioca il dopo Macron. Il presidente non potrà essere rieletto e non vuol passare come colui che ha dissestato le finanze. La Francia ha aumentato il debito pubblico più di ogni altro paese: era il 58 per cento del prodotto lordo nel 2001 quando è arrivato l’euro, salito al 98 nel 2019, ora è vicino al 115; quello italiano è passato nello stesso periodo dal 106 al 134 per cento, per salire al 145 per cento odierno. Non ci sono elezioni politiche fino al 2027.

Allora Jean-Luc Mélenchon avrà 76 anni, la sua spinta propulsiva sarà affievolita se non spenta, a favore di chi? Il Partito socialista resiste in provincia (su 42 comuni con oltre 100 mila abitanti, ne governano 24 da soli o con alleati), ma non ha leader né idee. Il macronismo non s’è fatto partito e non si vedono eredi. Resta in sella come un’amazzone Marine Le Pen. Se nulla cambia, le presidenziali saranno una partita tra la regina della piazza e un signor nessuno. 

Il mal francese ha contagiato la Germania? Non mancano le somiglianze. I lavoratori dei trasporti (treni, porti, aeroporti, autobus, metropolitane) hanno bloccato il paese lunedì 27 marzo come non accadeva da trent’anni. I sindacati di categoria Ver.Di (servizi) e Evg (trasporti) hanno sconfessato la potente organizzazione confederale Dgb (Deutscher Gewerkschaftsbund) disposta ad accettare gli aumenti salariali proposti dalle aziende a cominciare da quella ferroviaria, Deutsche Bahn, epicentro dello scontento (9,3 per cento in più per compensare l’inflazione). La federazione dei metalmeccanici IG Metall si era accontentata di un 8,5 per cento, poco meno dell’aumento annuo dei prezzi.

Ma i ferrovieri si sono indignati per i mega stipendi che si sono concessi i vertici dell’azienda e per il rincaro delle tariffe a fronte del calo di passeggeri. Dunque, anche i tedeschi sentono lo spirito del tempo, l’arroganza dei capi, l’avidità dei ricchi, le diseguaglianze aggravate dall’inflazione, “la più ingiusta delle tasse” secondo John Maynard Keynes. Ma si tratta pur sempre di una protesta sindacale, dura e radicale, calata però nella storia del paese dove è nata la socialdemocrazia. Né Poujade né Marx, semmai Ferdinand Lassalle, l’intellettuale che nel 1863 fondò l’Associazione generale degli operai tedeschi, prima seguace poi avversario di Karl Marx. Tuttavia, guai a sottovalutare la portata politica di quello sciopero fuori del comune, anche perché va messo in relazione con i dilemmi del partito socialdemocratico che ricadono direttamente sul cancelliere Scholz.

In Germania l’inflazione è una ossessione nazionale radicata da almeno un secolo. Gli storici dimostrano che durò solo due anni dal 1921 al 1923, e la repubblica di Weimar dal 1924 al 1928 godette di un periodo d’oro. Fu la disoccupazione di massa provocata dalla Grande depressione del 1930-1933 a spingere Hitler al potere. Ma nessuno studioso è ancora riuscito a cambiare il senso comune. Non solo. Questa volta non sono i ceti medi a essere colpiti, ma i lavoratori dipendenti in un’economia che, per quanto grande e solida, ha reagito meno bene di altre (dell’Italia o della Spagna ad esempio) alla fine della pandemia e alla crisi del gas.

La transizione energetica mette la Germania sotto stress, la riconversione industriale avviata dai grandi gruppi globali (auto, chimica, elettronica) obbliga il Mittelstand, il nocciolo duro della manifattura, a cambiare il proprio paradigma produttivo, il Modell Deutschland va riformato in profondità, ha ammesso Olaf Scholz generando un’ondata di incertezza. Il cancelliere ha avuto il coraggio di dire amare verità parlando di “svolta epocale” nel saggio pubblicato su Foreign Affairs, e di compiere scelte di rottura, dal riarmo mettendo fine a settant’anni di pacifismo, alla svolta verde che ha fatto fibrillare il sindacato che da sempre è il pilastro della Spd.

L’impressione è che la sinistra tedesca non sia in grado di fare i conti con i compiti che la guerra in Ucraina affida alla Germania e alla sua centralità in quanto potenza continentale e asse portante dell’Unione europea. Compiti che richiedono responsabilità politiche e costi. Il realismo del cancelliere, dunque, rischia di trasformarsi in fuga in avanti rispetto alle sue stesse truppe se il dibattito politico non aiuterà a far maturare una consapevolezza più ampia. Intanto la Spd è insidiata a sinistra dalla Linke che titilla il sovranismo in concorrenza con la destra della AfD (Alternative für Deutschland).

Il modello che si era affermato nel Dopoguerra non è entrato in crisi solo a Berlino. Molto è stato scritto e ancor di più verrà detto prima di afferrare il bandolo della matassa. È una crisi d’identità mentre proprio l’identità torna centrale per le persone e per i popoli, secondo Francis Fukuyama. È “una confusa rivolta contro il calculemus”, la ragione illuministica che ha plasmato l’occidente, come aveva intuito Isaiah Berlin già molto tempo fa. È colpa della crescente ingiustizia sociale secondo Thomas Piketty e i suoi sostenitori. E potremmo continuare.

Chissà se aveva ragione Niccolò Machiavelli quando avvertiva il principe che “la moltitudine”, al contrario di quel che sosteneva Le Bon, non è mossa solo dal desiderio di non essere dominata, ma è più saggia e costante del sovrano. Certo, oggi è diventato difficile accettare il pluralismo tra gli stati, i popoli e in seno al popolo: ormai è quasi impossibile riconoscere che esistono “valori, anzi verità contrastanti” con le quali convivere, trovando di volta in volta l’equilibrio possibile, anche se non il migliore in assoluto. Si pensi a libertà ed eguaglianza, i più tipici ideali difficilmente conciliabili in pratica. “I fini degli uomini sono molteplici e non tutti sono in linea di principio compatibili l’uno con gli altri”, sostiene Berlin, quindi “non si può mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto, e della tragedia, dalla vita umana, sia personale sia sociale”.

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