Foto di David Chang, via Ansa  

l'intervista

In prigione da Xi. La testimonianza dell'attivista taiwanese Lee Ming-che

Francesco Chiamulera

Ha fatto cinque anni di carcere, tra rieducazione al socialismo cinese e vessazioni. Ci racconta i libri proibiti e dice: il discorso di Meloni sull’Ucraina serve a non dimenticare “i sommersi”  

Taipei. Essere accolti da un signore sorridente che ti sventaglia in faccia uno smartphone con un video del discorso di Giorgia Meloni sottotitolato in mandarino non è esattamente quello che ti aspetti quando sei a Taiwan e stai per incontrare un perseguitato politico che si è fatto cinque anni di galera. E tantomeno immagini che quello stesso signore finirà per raccontarti la storia di come l’Italia e il suo passato governo gialloverde facciano parte dei corsi di rieducazione politica nelle carceri cinesi. Eppure va proprio così il primo impatto con Lee Ming-che, che non sta nella pelle, di fronte alla stampa italiana, nel dire cosa pensa della presidente del Consiglio per il noto discorso alla Camera dei deputati del marzo scorso, in cui Meloni rivendicava appassionatamente il ruolo dell’Italia a sostegno incondizionato dell’Ucraina e del presidente Zelensky, a fianco di una nazione invasa e aggredita.

“Fantastico, qui a Taipei è diventato virale. Il video circola, ce lo siamo girati tra attivisti e giornalisti, e anche se io personalmente non sono d’accordo con le sue posizioni sui gay, le parole del vostro primo ministro ci hanno entusiasmati. E rincuorati”. Eravamo venuti qui, in questo bar di Zhongzheng, distretto centrale della capitale Taipei, per una conversazione sui diritti umani in Cina, la condizione dei detenuti, le libertà e la repressione, con quello che è forse il più prominente e conosciuto dei prigionieri politici del regime di Pechino: non perché tutti gli altri reclusi non conoscano una sorte spesso cupa e degna di attenzione, ma perché Lee, dopo oltre cinque anni di carcere duro, è da pochi mesi qui, al sicuro, nella sua Taipei. Ad agosto l’ex speaker americana Nancy Pelosi nella sua visita sull’isola ha voluto incontrarlo. Ora Lee accetta di parlare con il Foglio, per la prima volta in Italia, della sua incredibile storia. 

Catturato nel 2017 mentre varcava il confine a Macao (stava andando nella Repubblica popolare cinese, dice, ad aiutare la suocera che aveva bisogno di assistenza medica), accusato di minacciare la sicurezza nazionale perché nel suo impegno da attivista aveva fornito più volte assistenza e aiuto a dissidenti cinesi, Lee è stato processato e condannato a cinque anni per sovversione. Se non è finito a marcire in una qualche remota prigione nel mezzo della Cina o non è semplicemente scomparso dai radar è forse soltanto grazie alla sua cittadinanza straniera e al potente battage mediatico che la moglie e altri attivisti di Amnesty hanno subito scatenato intorno al caso.

Le circostanze in cui Lee Ming-che è stato beccato sono da brivido. “Nel 2016, un anno prima della mia cattura, il governo della Repubblica popolare cinese è entrato nel mio computer, mentre mi trovavo in un altro paese e cioè a Taiwan, usando l’applicazione WeChat che vi avevo installato. Come lo so? L’ho scoperto durante il processo. Perché per incriminarmi hanno citato informazioni sensibili e personalissime che si trovavano nel mio portatile. È così che ho capito che tutte le mie conversazioni venivano spiate”.

Di cosa si trattava? “Mi hanno preso per le mie passate attività a favore dei criminali politici in Cina. Raccolgo donazioni per pagare loro le spese legali, soprattutto visto che nella Cina comunista di solito non vengono incriminati specificamente per i reati politici che hanno causato il loro arresto. Il governo preferisce non dirlo, maschera le proprie intenzioni attraverso altre imputazioni generiche”. Ecco perché, spiega, c’è bisogno di qualcuno che dica la verità sulle ragioni della loro incarcerazione. Seguendo un copione già visto con i vari perseguitati di Hong Kong (a cominciare dai librai della Causeway Bay Books), in un primo momento Lee è semplicemente scomparso nel nulla.

Nessuna notizia su di lui. Ci sono voluti dieci giorni perché Pechino facesse sapere che Lee Ming-che si trovava nelle mani della giustizia cinese, e poi altri due lunghissimi mesi in una cosa che si chiama Rdsl, misura di carcerazione introdotta nell’èra di Xi Jinping, acronimo di “sorveglianza domestica in un luogo designato”, la quale non è paragonabile agli arresti domiciliari  dei paesi dove vige lo stato di diritto. L’attivista Michael Caster l’ha definita in un’intervista al Diplomat “la più temuta dagli imputati in Cina, perché è quintessenzialmente totalitaria”: un buco nero nel quale non si sa perché vi si entra, dove si va, e soprattutto quanto si starà.

“È una detenzione preventiva che ti distrugge mentalmente”, dice Lee Ming-che, “in un luogo segreto, ignoto anche a te, puoi trovarti in un appartamento o in un albergo, ma non hai idea di dove ti trovi né quando uscirai. Nel mio caso, sono stato rinchiuso per due mesi, senza contatti con il mondo esterno, e solo dopo ho saputo che mi trovavo nella città di Guangzhou. Ma ci sono altri imputati che vi restano per periodi molto più lunghi. Anni, anche”.

Poi Lee è stato sottoposto a giudizio, presso una corte dello Hunan. “Il mio processo è stato pubblico, con la mia famiglia presente in aula e perfino dei video diffusi su internet: una eccezione assoluta per un detenuto politico in Cina. Anche stavolta, la ragione è legata al mio passaporto taiwanese e alla campagna martellante condotta da mia moglie. Il verdetto mi ha sorpreso: le donazioni che raccoglievo per i dissidenti incarcerati non sono state considerate un crimine dalla corte. Sono stato condannato per quello che avevo scritto su internet a proposito dello stato cinese”.

La sentenza: cinque anni di carcere duro nella prigione di Chishan, tristemente nota come luogo di detenzione dei prigionieri politici attraverso il sistema del laogai, cioè la rieducazione attraverso il lavoro. “Quello a cui sono stato sottoposto per cinque anni è lavoro forzato. Punto. La legge cinese dice che ufficialmente i detenuti devono lavorare otto ore al giorno, per sei giorni alla settimana. Ma non va così. Lavoravamo tredici ore al giorno, tutti i giorni, senza pause. Facevamo guanti e scarpe che vengono poi mandati in Canada o negli Stati Uniti”.

Possibile? “Funziona così: un brand americano fa un ordine presso una fabbrica cinese, e la fabbrica lo gira al sistema carcerario, perché lo facciano i detenuti. Non so fino a che punto le società occidentali lo sappiano. Ma so che uno che era in cella con me per reati politici adesso sta facendo causa a una compagnia statunitense, quindi immagino che lo scopriremo presto”. Le guardie erano gentili o abusive? “Decisamente gentili. Sanno benissimo come funziona il sistema penitenziale cinese. Sanno che quelli che sono là non sono veri criminali. Le definirei rassegnate. Pensano che sia da stupidi mettersi contro il Partito comunista e il suo immenso potere”.

La cella di Lee: sedici persone stipate in uno spazio di venti metri quadri, con letti a castello ovviamente, e una sola latrina comune. I compagni di cella così numerosi, spiega l’attivista, erano dovuti alle campagne contro la corruzione di Xi, che hanno proiettato nelle galere cinesi una montagna di spacciatori e criminali comuni di strada. Anche se all’inizio della sua prigionia c’era qualche spiraglio per Lee per parlare con qualcuno dei compagni di cella, questa possibilità è stata successivamente esclusa dai suoi carcerieri. “Se parlavo con qualcuno venivo punito. Quanto alla mia famiglia, l’ho potuta vedere pochissime volte: sedici in cinque anni. Otto richieste di visita su dieci mi venivano respinte, alla faccia del diritto teorico che consentirebbe un incontro al mese. Le visite di familiari e conoscenti in Cina sono sempre sorvegliate a mezzo di telecamere, ma nel mio caso le guardie erano fisicamente presenti sempre. Anche per intervenire, se toccavo temi sensibili o proibiti”. 

Mentre Lee racconta queste cose, nel caffè di Taipei suona un pezzo di Miles Davis, o forse di Chet Baker, e viene da pensare che forse questi cortocircuiti succedono solo a Taiwan, che uno che ha visto le prigioni del comunismo cinese e le rieducazioni politiche e questi ricordi estratti dall’oscurità possa sedersi a ordinare un matcha latte in mezzo alla clientela borghese di un quartiere residenziale, con la colonna sonora di Birth of the Cool. Parliamo della rieducazione, o “Educazione sull’ideologia e la politica”, com’è chiamata ufficialmente. “È un corso quotidiano di mezz’ora o un’ora che verte soprattutto sul pensiero e le opere di Mao, e poi su cose storiche come la guerra di Corea e la guerra civile cinese. Si ascolta e poi si deve scrivere relazioni e riassunti delle lezioni. Che riguardano anche temi contemporanei. Uno dei messaggi martellanti che ripetevano è ‘Taiwan è parte della Cina’. E poi insegnano l’odio verso l’occidente. Spiegano che America ed Europa sono sfruttatrici del popolo cinese, e che è nostro dovere provare risentimento nei loro riguardi, anche se, l’Italia...”.

Ed è qui che Lee estrae nuovamente il suo smartphone, per la seconda e più grossa sorpresa della nostra conversazione. “L’Italia è la meno criticata nei corsi di rieducazione. Viene spiegato che il suo ruolo non è altrettanto negativo che quello degli altri paesi occidentali, perché voi italiani avete sottoscritto questo”. Sullo schermo compare l’immagine della firma, da parte del governo gialloverde a guida di Giuseppe Conte, della Via della seta. Anno 2019. “Nei laogai viene raccontata come un gran successo della Cina. Non entrano nei dettagli dell’accordo, semplicemente la descrivono come un programma di aiuto cinese verso nazioni ‘povere’, e l’Italia è inclusa nel novero”. L’occidente, secondo i corsi di rieducazione subiti da Lee Ming-che, è in crisi a causa del sistema democratico, che crea caos e instabilità. “La propaganda cinese sfrutta molto la crescita dei partiti di estrema destra, populisti e antidemocratici in occidente per dimostrare che il suo sistema è in declino”. 

Com’è il resto della giornata di un detenuto in Cina? “E come vuole che sia, dopo che hai lavorato per tredici ore, ti sei fatto la doccia e hai subìto un’ora di rieducazione politica? Crolli addormentato, ecco”. Ma Lee Ming-che, cresciuto nella libera Taipei, innamorato delle idee, in quelle galere sovraffollate un’ultima intercapedine riusciva quasi sempre a ritagliarsela. Per una cosa chiamata libri. Ci racconta delle sue letture in prigione. Di quando nella cella nello Hunan ha riletto La fattoria degli animali (poteva mancare, Orwell, in questo labirinto totalitario?).

E ci mostra, con tanto di lugubri documenti ufficiali, bollati e controfirmati dalla solerte burocrazia penitenziaria del Partito, dei libri amati, richiesti e rifiutati. In questa storia fanno così ingresso, come uno spiraglio nelle tenebre, Il discorso sulla servitù volontaria di Etienne De La Boétie, le Riflessioni sulla ghigliottina di Camus, la Storia dell’Olocausto di Jeremy M. Black. Tutti respinti. E poi, ancora, Dostoevskij, Derrida, Simone Weil. E tutto Primo Levi, da Se non ora, quando? a La tregua, a La chiave a stella. 
A chi lo ascolta, ora, Lee Ming-che, che è salvo per un pelo, chiede che non ci si dimentichi di tutti gli altri. Citando Levi: i sommersi.

Di più su questi argomenti: