Robert Tsao, Foto Ansa 

il colloquio

Il tycoon Bob Tsao ci racconta come aiuta Taiwan a resistere alle minacce cinesi

Francesco Chiamulera

Se l'isola è descritta come debole, l’attacco cinese arriverà prima, come con Kyiv. E dice sicuro: gli americani non ci abbandoneranno. Colloquio con il fondatore del colosso UMC, seconda azienda taiwanese dei semiconduttori

Taipei. “Ieri sera ho incontrato un gruppo di medici di Taipei che stavano per partire per l’Ucraina. Che bravi. Ho dato loro dieci milioni di dollari taiwanesi”. Sorride. Alza il pugno destro. La chioma bianca, intatta e ribalda, elegantissima, si muove appena mentre Robert Tsao, settantasei anni, fondatore del colosso UMC, seconda azienda taiwanese dei semiconduttori, si alza dal proprio posto alla scrivania e guarda fuori dalla vetrata gigante. Siamo in una delle sue svariate penthouse nel centro della capitale dii Taiwan. Vista: il parco di Daan, emulazione in piccolo formato di Central Park e Hyde Park, un po’ rigoglioso e traboccante di piante tropicali, un po’ soffocato tra i vecchi e cadenti edifici della frettolosa edificazione post 1949, quando l’isola si fece rifugio dei nazionalisti in rotta dopo la sconfitta nella guerra civile. Dieci milioni di dollari taiwanesi sono trecentomila euro: bruscolini per Tsao, miliardario liberale che ha fatto la sua fortuna con i chip e che ha fatto notizia nell’agosto scorso presentandosi in conferenza stampa con giubbotto antiproiettile, caschetto militare e giovane attivista capellone taiwanese al fianco, per annunciare che donava cento milioni di dollari (americani, però: una montagna di soldi) all’autodifesa di Taiwan contro la Cina comunista. “Non intendo vedere Taiwan fare la fine di Hong Kong”. 

Collezionista coltissimo e curioso – “quello? E’ della dinastia Han, 100 a.C.”, e indica un vaso di bronzo, “carina la statua, vero? E’ un bodhisattva, ottavo secolo”, “le piace questo? Anche a me, è un antico corno persiano” – la sua è una delle raccolte private di manufatti antichi più ragguardevoli di tutta l’Asia. Nato in una famiglia della piccola borghesia (il padre era insegnante), imprenditore dagli interessi vasti e dalle molteplici capriole, Tsao è ora l’avanguardia dei falchi taiwanesi anti Pechino. In un momento di grandi angosce per la sorte dell’isola ha fatto scalpore tornando nel luogo dove è cresciuto e fatto fortuna, stracciando con gran senso del teatro il passaporto di Singapore e riprendendosi fieramente la cittadinanza taiwanese. “Credo che i miei concittadini abbiano apprezzato”, dice in una lunga chiacchierata al Foglio a piedi  scalzi, con indosso una camicia impeccabilmente stirata su cui campeggia il Mala, la collana mnemonica buddista in legno di sandalo, nell’appartamentone minimalista in centro a Taipei, la grande libreria che gli sta dietro piena di testi anticomunisti. “L’ho fatto per incoraggiarli. Comprendo la paura che la Cina può incutere nelle persone comuni, ma devono sapere che io ho rinunciato alla mia cittadinanza singaporiana per questa nazione. E’ per loro che ho abbandonato la mia comfort zone, è per loro che sono tornato a vivere in un luogo pericoloso. L’ho detto ai taiwanesi americani che mi hanno invitato l’estate scorsa a un summer camp in America: bisogna avere coraggio, eccomi, sono qui per darvi il mio”. Il linguaggio e lo spirito è churchilliano, se non proprio quello dell’ora più buia poco ci manca. E il capellone che gli stava accanto in conferenza stampa si chiama Puma Shen. 

E’ il fondatore della Kuma Academy, una delle nuove scuole di addestramento all’autodifesa dei civili sorte a Taiwan in questi mesi concitati. Spiegano ai cittadini come prepararsi a un attacco della Repubblica popolare cinese: come trovare rifugio, come prestare il primo soccorso. Tsao era lì con lui, un signore che potrebbe serenamente godersi i suoi miliardi in qualche isola di privilegio in occidente e invece sta qui, sul fronte, dove ha preso tutta un’allegria militante e adrenalinica, da nuova Guerra fredda. Un editoriale del Taipei Times di qualche mese fa cercava di stargli (faticosamente) dietro, ammettendo che “tracciare la traiettoria di Bob Tsao non è facile”. Ma poi lo stesso quotidiano diceva una cosa molto vera: è la traiettoria di Taiwan stessa che è difficile da tracciare. Solo dieci anni fa, nel tempo della globalizzazione ancora in auge, non era impossibile coltivare qualche speranza non ingenua di riavvicinamento tra le due sponde. Non era raro vedere studenti taiwanesi all’università di Pechino, mentre frotte di cinesi continentali riempivano le vie di Taipei. Non sorprende, dunque, che nella sua estrosità mercantile lo stesso Tsao facesse i suoi affari con il mercato cinese, appoggiasse in modo ondivago partiti e politici che parlavano più o meno apertamente di prospettive (lontane) di riunificazione, viaggiasse in giro per l’estremo oriente considerandosi un cittadino dei luoghi che garantivano di volta in volta le condizioni più favorevoli per i suoi affari. In pochi anni, soprattutto dall’ascesa di Xi Jinping,  tutto è cambiato. “Innanzitutto abbiamo bisogno di restare uniti come taiwanesi. Vogliono eliminarci, portarci via le libertà, il nostro stile di vita improntato allo stato di diritto. E come ogni democrazia, Taiwan non è un monolito, molti qui sono confusi e disinformati. La Cina è riuscita a penetrare i media locali, a pagare commentatori ed editorialisti, a comprare testate, a diffondere la sua propaganda”. A Taiwan? Sul serio? “Ma certo. La gente è ovunque superstiziosa e credulona. Prendete i templi locali, le comunità, i gruppetti religiosi: a Taiwan sono quasi tutti infiltrati dal Partito comunista cinese. Bella mossa, devo dire: ampi risultati con budget ridotto. Ahah”. Ride, mentre dagli scaffali che gli stanno dietro va a cercare qualche recente lettura. Cosa pensa della politica taiwanese, del Partito progressista democratico, il partito al potere della presidente Tsai Ing-wen? “Sta perdendo la battaglia per le menti dei taiwanesi. La propaganda cinese è insidiosa, e segue alcuni semplici concetti: primo, che Taiwan è così piccola che difenderla sarà impossibile; secondo, se i taiwanesi non perseguono l’indipendenza, non ci sarà nessuna guerra; terzo, l’annessione di Taiwan alla Cina è un processo storico inevitabile, un destino segnato; quarto, è cominciata la nuova grande gioventù del nazionalismo cinese, l’èra in cui la Cina si riprende la sua gloria; quinto, la Cina avanza, gli Stati Uniti crollano, Pechino è più potente di Washington; infine, sesto, gli americani non verranno mai in soccorso di Taiwan: sono egoisti, irresponsabili, gli importa solo dei loro interessi. Credetemi, sono tutte fesserie. Propaganda! E il culmine di questo indottrinamento sapete qual è? Tsai Ing-wen, la presidente, è troppo provocatoria”. Mentre Tsao dice questo, le immagini delle televisioni taiwanesi mostrano la presidente imbarcarsi sul volo che sta per portarla in America. “Ecco, il messaggio che il Partito comunista cinese cerca di far passare presso la nostra opinione pubblica è che stiamo facendo ‘come Zelensky’. Che anche Zelensky ha tirato troppo la corda, che se non fosse stato così provocatore Putin non avrebbe invaso l’Ucraina. Un ribaltamento totale della realtà. E’ triste che ci sia in giro qualcuno che crede a queste scemenze”. 

Mentre la presidente vola in California, l’ex presidente Ma Ying-jeou, del Kuomintang, il partito ex nazionalista che da acerrimo nemico dei comunisti si è fatto volto della linea morbida con Pechino, vola con sorprendente, allarmante simmetria in Cina. Che ne pensa Bob Tsao? “Ahah. Che stupido. Intendo, lui e il resto della leadership di quel partito. La verità è che la Cina potrebbe davvero attaccare Taiwan. Stiamo parlando di un’opzione reale, concreta. Ma non è affatto vero che non possiamo fare niente per evitarlo. Possiamo evitare di mandare messaggi sbagliati, ad esempio, come hanno fatto i filorussi in Ucraina quando invocavano l’intervento di Putin, quando gli facevano credere che l’invasione sarebbe stata una cosa facile e veloce. E’ proprio quello che dice il Kuomintang, quando molti suoi esponenti fanno intendere che in caso di aggressione la resistenza di Taiwan durerà poche ore, un giorno soltanto. E’ un messaggio molto pericoloso: incoraggia più o meno indirettamente Xi Jinping a usare la forza. Se ci vuole un giorno soltanto, perché dovrei aspettare?”.

Robert Tsao è un caso (molto) raro di imprenditore che risponde alle domande attraverso i libri che legge. “Lo vede questo?”. Squaderna sul tavolo il mitico “Illuminismo adesso” di Steven Pinker, in due edizioni, inglese e mandarino. “Poveri libri, li massacro, guardi come l’ho studiato e sottolineato. Bene, quello che dice questo libro splendido è che è l’illuminismo che ci ha portato all’ultimo stadio della nostra civiltà. E ora le maggiori forze dell’oscurantismo mondiale all’opera – la Russia putiniana, la Cina comunista, i talebani, i religiosi iraniani – sono tutte esattamente agli antipodi di quello che chiamiamo illuminismo. Vanno contro la ragione, non rispettano la scienza, non credono nell’umanesimo. Putin e Xi sono razzisti e imperialisti, la cricca che hanno portato al potere non vuole altro che l’espansione del proprio dominio e della propria influenza, approfittano della creduloneria di masse che sono ancora, di fatto, rurali. E’ l’esatto contrario di come abbiamo costruito faticosamente il mondo moderno, e cioè con la tecnologia e il pensiero scientifico. Possiamo crederci dèi, come scrive Yuval Noah Harari, ma il problema è che la nostra natura è divisa, a metà tra umani e animali. In questo senso Putin e Xi sono semplicemente dei sottosviluppati”. L’alleanza Mosca-Pechino reggerà? “Non per sempre. Prima o poi finiranno per cercare di eliminarsi l’un l’altro. Ricordate Lin Biao? Mao non aveva addirittura scritto nella costituzione del partito che sarebbe stato il suo successore? Non gli era così straordinariamente leale? Bene, non è poi stato fatto fuori dal potere dallo stesso Mao? Così va sempre con i dittatori, specialmente quelli sorti nell’alveo del comunismo: non mantengono mai, mai la parola. E’ una malattia che risale a Lenin, quando disse che per eliminare la classe dominante qualsiasi mezzo era lecito: la menzogna, la contraffazione, l’inganno. Stalin lo ha fatto eliminando milioni di russi e di ucraini, Pol Pot sterminando i cambogiani, e così via”. Pausa. Altra consultazione della libreria, altri testi estratti dallo scaffale. “Mao’s Great Famine” e “The Tragedy of Liberation: A History of the Chinese Revolution”, dello storico olandese/hongkonghese Frank Dikötter. Che è lo stesso che nel suo ultimo libro, pubblicato l’anno scorso, parla della nuova superpotenza cinese. 

“La Cina può essere molto potente, ma il suo dominio è a rischio. Se in questi vent’anni si è così arricchita non è certo grazie alle politiche del Partito, ma solo dell’occidente. Dell’interscambio con l’America, con Taiwan, con il Giappone, con Singapore. Ci ricordiamo di quando Deng Xiaoping andò negli Stati Uniti con quel ridicolo cappello da cowboy, a chiedere soldi e prestiti? Una politica culminata vent’anni dopo con l’accesso all’Organizzazione mondiale del commercio e l’apertura del mercato statunitense, con l’incoraggiamento agli americani a investire in Cina. Ne è seguita una specie di corsa all’oro, con la Cina che, come sappiamo, poteva offrire due cose molto appetibili: terra a bassissimo costo, perché il partito la prendeva dal popolo e la svendeva; e una riserva pressoché illimitata di manodopera altrettanto economica, poiché non ci sono leggi a protezione dei lavoratori, e i milioni di cinesi affluiti nelle città dalle campagne hanno lavorato in questi decenni in condizioni semischiavistiche. Ecco perché quando faccio shopping in Europa non compro nulla con scritto Made in China, è puro sfruttamento. Ma il punto non è questo. Il punto è che il sistema è dipeso fino a oggi dal mercato occidentale. E tutto questo sta per finire, perché seppure tardivamente gli americani se ne sono accorti”. Altri libri: “Post CCP China” di Kenneth C. Fan, e “Red Roulette”, di Desmond Shum, memoir dell’imprenditore cinese la cui moglie è scomparsa dal 2017. 

Pensa davvero che il gigante cinese sia al capolinea della propria espansione? “Sì. Il regime è in pericolo. L’economia sta rallentando e rischia la bancarotta. E in un sistema fondamentalmente mafioso, basato su ricompense verticali, gerarchiche, dall’alto verso il basso, se l’ingranaggio si ferma è tutto finito. Nella loro hybris i governanti cinesi pensano di essere a capo di un grande e brillante sistema, ma guardate quanto inefficiente e misera è stata la loro risposta al Covid. Taiwan sarà anche piccolina, ma può contare su un alleato grande e grosso: la stupidità del Partito comunista cinese. Che poi ancora non si possa vedere chiaramente, questo dipende dalle dimensioni gigantesche di quella nazione. C’è un vecchio detto in mandarino: se un insetto ha mille piedi, anche dopo che sarà morto continuerà a muoverne qualcuno. Eppure gli americani stanno tagliando i ponti. Le produzioni vengono spostate fuori dalla Cina”. Ma  a girare per le vie di Taipei, a parlare con giornalisti e opinionisti, perfino quelli vicini al filoamericano Partito progressista democratico, perfino i giovani e agguerriti attivisti che si oppongono con tutte le forze a Pechino, gira una certa sfiducia sull’appoggio che l’America sarà disposta a dare a Taiwan nel caso di un’aggressione o di un blocco navale. “Gli Stati Uniti che ci abbandonano? Non ci credo nemmeno per un secondo. Mica solo per amicizia o idealismo disinteressato. Ricordatevi di una cosa: Taiwan è diventata indipendente dal Giappone grazie agli americani. Ma non è successo in modo gratuito né indolore. L’America non ha sacrificato così tante giovani vite nel Pacifico durante la Seconda guerra mondiale per niente. Truman non ha schierato la Settima Flotta nello stretto di Taiwan il 27 giugno 1950, allo scoppio della guerra di Corea, per difendere quest’isola perché poi tutto questo andasse dimenticato. E oggi più dell’80 per cento degli americani, secondo i sondaggi, ha mangiato la foglia. L’America riconosce la One China Policy di Pechino, ma dice anche che Taiwan non ne fa parte”. 

La rilevanza di Taiwan è legata anche all’egemonia nei semiconduttori, quelli che lei ha prodotto per una vita. C’è chi dice che quando l’America potrà farseli in proprio si scorderà della vostra isoletta. “Un’altra cosa in cui non credo minimamente. L’industria dei chip è strategica per il mondo libero. Ma nessuno può permettersi che Taiwan diventi una portaerei dei comunisti cinesi. Gli americani, non solo Biden, sono consapevoli che se cade Taiwan le prossime tessere del domino sono il Giappone, l’Indonesia, giù, giù, fino all’Australia. Se Taiwan o parti di essa dovessero finire sotto il giogo di Pechino gli americani non resteranno indifferenti. Ricordatevi del piccolo Kuwait attaccato da Saddam, e della fine che Saddam ha fatto. Un destino che peraltro attende anche Putin. Ecco perché sono convinto che il periodo più pericoloso per Taiwan sia alle spalle”. 

Una scrollata di spalle, poi Tsao si alza e torna alla grande finestra su Taipei. Guarda fuori, al parco lussureggiante, e poi, oltre Fuxing Road e il Taipei 101, alle foreste montuose dello Yangminshan, col loro vulcano dormiente. “Guardate questo luogo verdeggiante. L’ultimo sacro angolo di civiltà cinese libera”. Certi nuvoloni neri promettono pioggia. Quanto ritiene probabile un’invasione? “Non posso dirlo. Quelli sono come zombie, e con gli zombie non ci sono previsioni che tengano. Ma ci si può preparare. Altro che conquista in un giorno”. Sorride. “Se servirà combatteremo fino alla morte. Comunque vada, prendersi Taiwan non sarà un’impresa facile. Ve lo posso garantire”.

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