l'udienza a Manhattan
Trump rimanda in scena lo show della vittima da vendicare, il pubblico accorre
L'ex presidente voleva che il suo ingresso in tribunale fosse l’ennesimo, partecipatissimo spettacolo: così è stato. Ma i suoi sostenitori non possono essere un alibi per i repubblicani: serve il coraggio politico di fornire un’alternativa senza sentirsi franare la terra sotto i piedi a ogni sussulto di sondaggio
Transenne, cartelloni, sostenitori e detrattori che si urlano insulti, telecamere, il cowboy nudo: Donald Trump voleva che questo suo ingresso in tribunale a Manhattan fosse l’ennesimo, partecipatissimo spettacolo: così è stato. Per quanto possa essere visibile la trappola tesa dall’ex presidente americano – e questa sul suo arresto lo è in modo limpido – ci caschiamo tutti, attratti dai suoi palcoscenici imbronciati e irresistibili: è l’imprevedibilità che diventa esistenza politica, se tutto può succedere, meglio esserci. Questo è il marchio di Trump, che s’è fatto inossidabile assieme alle sottomarche sempre presenti, dall’ingerenza di George Soros al vittimismo alla caccia alle streghe pretestuosa alla mobilitazione rabbiosa alla vendetta necessaria per salvare la democrazia americana dall’assalto dei liberal. E’ tutto chiaro ed eppure ancora seducente pure se la presidenza Trump è finita da due anni e mezzo, pure dopo il 6 gennaio, due impeachment, due sconfitte elettorali, gli scatoloni con documenti segreti nello sgabuzzino delle sdraio a Mar-a-Lago, una serie di casi giudiziari, le alleanze internazionali capovolte, la freddezza con l’Ucraina aggredita, le menzogne piccole, grandi, enormi.
Trump conosce il fascino del caos e lo rimette in scena, sapendo che il pubblico accorrerà numeroso, e sapendo che questa è la sua arma di sopravvivenza e rilancio, perché appena lo spettacolo inizia arrivano i soldi (5 milioni di dollari raccolti dopo l’incriminazione) e crollano gli argini che i suoi compagni di partito cercano da anni di creargli attorno, regolarmente travolti. L’unico momento, in questi due anni di cosiddetto post trumpismo, in cui il Partito repubblicano è riuscito a uscire dal sequestro ideologico e identitario in cui è stato messo da Trump e in cui ha poi volontariamente deciso di rimanere è stato a novembre, quando i candidati selezionati dall’ex presidente sono andati peggio delle attese (o malissimo): se Trump non vince nemmeno più, perché dobbiamo stare sotto il suo giogo?, hanno pensato i leader vecchi e in ascesa del partito. La politica funziona così, con calcoli elettorali e di consenso, non si può chiedere a un partito di far fuori il suo cavallo migliore, nemmeno quando corre senza regole e schiaccia chiunque passi nelle vicinanze, compresi gli alleati, soprattutto gli alleati.
David Frum, conservatore antitrumpiano, ha descritto molto bene lo spettacolo in corso: “Molti repubblicani vogliono che Trump se ne vada – scrive sull’Atlantic – Ma sono intrappolati nella loro stessa malafede: vogliono che i pubblici ministeri facciano per loro il lavoro che sono troppo spaventati e spaccati per fare da soli. Ma poi, in nome di un ottuso vantaggio politico, fingono di essere dalla parte di Trump, mentre dentro di loro tifano per i magistrati”. Frum invita a un “Never Trump Again”, una riedizione del coro del 2016 che si schiantò contro un’elezione imprevista e poi negli anni contro la forza di una presidenza eversiva. Il popolo è sovrano, il sostegno all’ex presidente, che si dichiara non colpevole, esiste, fatevene una ragione, dicono i trumpiani, rassegnati e no. Ma il coraggio politico è oggi per il Partito repubblicano, e per tutte le destre che flirtano con il playbook trumpiano, tracciare una linea, fornire un’alternativa senza sentirsi franare la terra sotto i piedi a ogni sussulto di sondaggio.