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Differenze

Che Guevara è severità, scelta di vita. Zelensky è il suo popolo in armi, necessità. Tutta un'altra storia

Giuliano Ferrara

Il rivoluzionario argentino era un medico, la professione del soccorso, e poi tristezza e nostalgia. Il presidente ucraino è un attore di avanspettacolo, il mestieraccio dell’intrattenimento, baldoria cosacca e riluttanza. Il primo fu icona da morto, il secondo lo è da vivo e vegeto (e che Dio ce lo preservi)

 

Ernesto Guevara detto il Che era un medico, la professione del soccorso. Zelensky un attore di avanspettacolo, il mestieraccio dell’intrattenimento. Guevara fu icona da morto, cristica per via della fotografia del corpo disteso alla Mantegna. Zelensky è icona da vivo e vegeto (e che Dio ce lo preservi) e il simbolico corporale è integralmente laico, ebreo, sguardo intelligente, ma uomo comune. Guevara aveva la barba, era uno dei barbudos. Zelensky è glabro. Entrambe le immagini parlano di guerra e sono per così dire in divisa, una divisa senza pompa e circostanza, più guerriglia o guerra popolare che stato maggiore. Sono legati alla nazione, Cuba libre e Slava Ukraini, ma Guevara ha un tocco internazionalista sovversivo, fraterno, Guevara varca i confini per portare verbo e rivoluzione in altri paesi; l’internazionalismo di Zelensky è politico, fondato sullo scambio di armi e tecnologie, ha un tocco diplomatico e allude alla difesa di un confine che, violato, diventa il confine di tutti gli alleati.

 

Il Che è tutti i popoli da sollevare in armi, è severità e scelta di vita, tristezza e nostalgia tanguera; Zelensky è il suo popolo in armi, è baldoria cosacca e riluttanza, eroismo di necessità, difesa della vita tra gli amori e la vita quotidiana avvilita e prostrata dalle bombe (come insegna il grandissimo Tananai nel suo “Tango” ucraino). Gli sfondi di Guevara sono la rivoluzione in un solo paese latinoamericano e poi campeggia, dopo la decisione per la campagna boliviana, la sua grande tautologia, piatta ma parlante per una o due generazioni: il dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione; gli sfondi di Zelensky sono il palazzo del potere presidenziale, le elezioni, la legittimità di stato costretta alla clandestinità e al combattimento, i parlamenti che lo ascoltano, le grandi kermesse che trovano una nuova star da Cannes a Hollywood (Sanremo esclusa, ma non è così importante), le armi come ali della libertà e la comunicazione non tautologica al re pilota d’Inghilterra che in Ucraina ogni pilota è re.

Ok boomer. I più giovani non lo ricordano ma l’uccisione in battaglia di Guevara coincise con il ’68, prima protesta globalizzata, e fu, il suo iconismo istantaneo e duraturo per molte minoranze, la nascita di un’ideologia universale del poster, un occidente che guardava ad altri mondi, altre musiche, altri profili di esistenza per innovare i fasti del suo modello di rivoluzione; mentre la sopravvivenza e la decisione per la difesa armata, costi quel che costi (non ho bisogno di un passaggio per scappare, presidente Biden, ho bisogno di armi), arriva nel culmine di un’altra globalizzazione in parziale disfacimento, ora consegnata alla battaglia dell’occidente euroamericano contro le autocrazie minacciose.

L’icona del Che suggerisce la democrazia opulenta come travestimento e tradimento delle aspirazioni dei popoli, il suo poster evoca il senso di colpa giovanile per l’occasione mancata, astio antiborghese e anticapitalista per un mondo che ti pervade, che ti impedisce di cambiarlo con la radicalità della forza e del sacrificio personale, al suono della musica popolare, la grande avventura che si commercializza e diventa gadget, finisce su zainetti e borse e t-shirt; il post di Zelensky, le sue clip, la sua performance attoriale, la sua retorica, il suo musical già pronto per le scene di Broadway, sono il contrario del senso di colpa, sono una esortazione, un appello, una richiesta di aiuto per una causa comune a cittadini, economie, focolari domestici colpiti dalla ferocia dell’invasione, dalla sua dissennatezza, una simbologia democratica, per common people, riconciliata con il presente, una logica di difesa contro un imperialismo che viene da una società senza partiti, senza società civile e libertà civile. Forse aveva ragione De Gregori quando cantava che la storia siamo noi, ma a entrare in qualche particolare si vede che è tutta un’altra storia.

 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.