Il Capodanno è lunare. Ma non solo cinese

Giulia Pompili

Dal tram a Roma alla festa a Milano. Dettagli politici non di poco conto 

Già nel dicembre scorso, per le strade di Roma, era possibile ammirare uno degli scalcagnati tram capitolini rimesso a nuovo, tutto dipinto d’azzurro, e sponsorizzato dall’ambasciata della Repubblica popolare cinese in Italia per augurare ai cittadini un “Felice Capodanno cinese”. Del resto, da qualche anno, la sede diplomatica ha smesso di organizzare la festa di Capodanno a Piazza Vittorio, e preferisce lasciare in mano le celebrazioni al Coordinamento delle associazioni cinesi e dal consolato cinese di Milano. L’altro ieri, all’arco della Pace, c’erano “migliaia di persone”  (citiamo da Milano Today), e sul palco sono saliti il console cinese Liu Kan e l’europarlamentare candidato alla presidenza della Lombardia, Pierfrancesco Majorino. Il sindaco Beppe Sala è intervenuto con un video. Tutti a celebrare il Capodanno cinese. Che però propriamente cinese non è. 

 
Negli ultimi giorni i rappresentanti diplomatici e istituzionali del mondo libero – dall’America al Regno Unito, dall’Australia al Canada  – ma anche le agenzie di stampa internazionali hanno descritto le celebrazioni del nuovo anno di domenica con il nome più corretto, cioè Capodanno lunare. In Asia infatti non è solo la Cina a usare il calendario che segue le fasi lunari, si chiama festa di primavera e ha rituali simili in Corea, in Vietnam, nelle Filippine, a Taiwan, ognuno con nomi e tradizioni diverse. Alla Repubblica popolare cinese, però, questa correttezza linguistica e attenzione inclusiva non è piaciuta granché. Il British Museum di Londra, per esempio, si è trovato in mezzo alla polemica quando venerdì scorso ha organizzato e sponsorizzato un evento per celebrare il Seollal, il Capodanno lunare coreano. Decine di utenti su Twitter, quasi tutti con pochissimi follower e con pochi messaggi ipernazionalisti, hanno risposto al museo indignatissimi: “L’unico Capodanno è il Capodanno cinese”, e poi: “Non è un furto mettere il nome del proprio paese nonostante il calendario sia quello tradizionale cinese?”, e infine: “Appropriazione culturale!”. Secondo alcuni resoconti apparsi sui social, alcuni studenti cinesi sarebbero andati all’evento al museo di Londra per “correggere” la storia della festività. Il British Museum ha poi cancellato il post sul “Capodanno lunare coreano” e ne ha fatto un altro, augurando a tutti “un buon anno del Coniglio”. Una cosa molto simile è avvenuta a Disneyland Resort, attaccato per aver usato online l’espressione “Capodanno lunare”. 

 


A un primo colpo d’occhio, la vicenda potrebbe sembrare una battaglia culturale che ha a che fare con certe ossessioni occidentali di correttezza linguistica, inclusività, ed eccesso di zelo nel tentativo di evitare il temibile tribunale online dell’appropriazione culturale. In realtà, la faccenda è molto più complessa. La Cina nell’ultimo decennio ha tentato in tutti i modi di costruire un soft power convincente sull’occidente, e non c’è mai riuscita, se non forse attraverso la cucina. Il Capodanno e le sue celebrazioni servono politicamente a creare un diversivo, un modo per esportare la propria centralità anche culturale, più o meno come quando i paesi autoritari organizzano i grandi eventi sportivi. E non ci sarebbe nulla di male nel tentativo di soft power se a un certo punto non diventasse una questione di estremo nazionalismo. C’è un messaggio politico preciso, lanciato dall’Amministrazione Biden in America, da quella di Justin Trudeau in Canada o da quella di Anthony Albanese in Australia, nell’augurare un buon “Capodanno lunare” ai cittadini: l’Asia – sebbene enormemente influenzata dalla cultura cinese – non è soltanto la Cina, così come il Capodanno lunare non è soltanto cinese. Ecco perché per la propaganda di Pechino questo dettaglio (politico, diplomatico prima che culturale)  è intollerabile.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.