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la diplomazia dei prossimi anni

La globalizzazione in stile Qatar. Tra trionfi sportivi e dilemmi politici

Claudio Cerasa

I Mondiali hanno mostrato i trionfi sportivi della globalizzazione. Ma dopo i Mondiali ci si potrà fidare di stati come il Qatar? Palloni e business. Perché il calcio anticipa un gran tema futuro: i confini delle amicizie economiche

L’Economist e il Financial Times hanno dedicato negli ultimi giorni due articoli molto interessanti al tema dei Mondiali in Qatar e lo hanno fatto utilizzando entrambi una lente di ingrandimento preziosa, utile a tenere la testa dell’osservatore sopra la superficie dell’acqua. La lente di ingrandimento, in entrambi i casi, è quella della globalizzazione. E i due approfondimenti, che vale la pena citare per provare a ragionare, ci permettono di riflettere intorno a due temi differenti: uno è di natura calcistica, l’altro è di natura politica. Il tema di natura calcistica, più leggero, più appassionante, è quello segnalato dall’Economist in un articolo dedicato a una particolare magia del Mondiale che si avvia verso la conclusione: le sorprese.

 

Direbbe Jack O’Malley che vedere giocare in finale la Francia di Mbappé e l’Argentina di Messi non è esattamente una sorpresa. Ma nel corso dei Mondiali c’è stato, secondo l’Economist, un numero insolito di sorprese. E secondo il settimanale britannico, che ha messo insieme una serie di dati proveniente dalle quote delle scommesse sportive relative al numero di partite che hanno presentato risultati lontani dalle previsioni, il Mondiale in Qatar, dal 2002 a oggi, è quello che ha disorientato di più i bookmaker, cinque dei dieci risultati più imprevedibili degli ultimi cinque Mondiali si sono verificati proprio in Qatar, e uno dei motivi possibili di questo dato è legato, secondo l’Economist, al fatto che anche le nazionali meno prestigiose sono riuscite a beneficiare della così detta globalizzazione del gioco e della capacità dei giocatori anche di nazioni non calcisticamente prestigiose di poter competere in campionati più ricchi, più innovativi e più competitivi di quelli nazionali.

 

Lezione utile: la globalizzazione anche quella più sfrenata anche nel calcio aiuta a sconfiggere le diseguaglianze, in questo caso tra le squadre. Il secondo tema interessante che investe il rapporto tra i Mondiali in Qatar e il futuro della globalizzazione prescinde dal lato sportivo e riguarda il lato politico ed è un tema che sul Financial Times Gideon Rachman affronta con uno spunto interessante che è questo. “Se ci fosse una classifica di Mondiali moralmente discutibili – dice Rachman – penso che Qatar 2022 potrebbe faticare a entrare nei primi quattro”. Tra i Mondiali moralmente discutibili degli ultimi decenni, dice Rachman, battono certamente quello in Qatar sia quello del 1978 in Argentina, disputato durante la guerra sporca della giunta militare, sia quello del 1970 in Messico, avvenuto due anni dopo l’uccisione di centinaia di manifestanti disarmati da parte del governo messicano, sia in particolare quello del 2018 in Russia, avvenuto appena quattro anni dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia e nello stesso anno in cui la Russia aveva usato il novichok su territorio europeo.

 

E qui lo spunto che offre Rachman, il confronto con quei Mondiali, quelli della Russia, ci porta a ragionare attorno a un’altra domanda: siamo sicuri che i Mondiali in Qatar siano simili, come si è detto in questi giorni, a quelli disputati in Russia? O meglio ancora: siamo sicuri che i Mondiali disputati in un paese che disprezza i diritti umani non siano Mondiali che servono a nascondere la determinazione di un paese che usa lo sport per coprire le sue vergogne? La globalizzazione, in questo ragionamento, c’entra per una ragione diversa da quella calcistica e c’entra perché in una stagione all’interno della quale l’occidente, e l’Europa in particolare, si sta ancora leccando le ferite provocate dall’essere stata superficiale nei suoi rapporti passati con la Russia e generate dall’aver fatto una scommessa che rivista oggi appare come suicida: chiudere gli occhi sull’estremismo di Putin per non perdere l’occasione di  avere da Putin gas a buon mercato. In un certo senso, lo stesso schema potrebbe essere applicato oggi al Qatar, che essendo uno dei principali esportatori di gas naturale liquefatto al mondo (Gnl) è divenuto per forza di cose un interlocutore naturale di un’Europa costretta a fare i conti rapidamente con la fine del Bengodi energetico russo.

 

E dunque la domanda da porsi è semplice: in un mondo che dovrà sempre di più muoversi all’interno di un contesto dominato dal friendshoring, dalla volontà cioè di privilegiare i rapporti economici tra stati simili, come ci si può affidare a stati lontani anni luce dai nostri princìpi democratici? Uno stato che, pur ospitando le più importanti basi Nato della regione, pur avendo aiutato l’occidente in Afghanistan, pur avendo fatto rispetto a molti altri paesi della regione alcune scelte che hanno visto prevalere visioni del mondo non dettate da semplice oscurantismo, nell’indice sulla democrazia calcolato dall’Economist si classifica pur sempre 128° su 167 paesi, in uno stato che in quello sulla libertà di stampa si classifica 119° su 180, in uno stato che secondo l’organizzazione Freedom House “non è libero”, in uno stato dove le interpretazioni “sbagliate” del Corano sono vietate per legge, dove una donna che lavora o viaggia senza permesso è ritenuta “disobbediente” e dove l’omosessualità è un reato?

 

Il caso del Qatar, da questo punto di vista, rappresenta una sfida interessante per capire senza moralismi che direzione può imboccare la globalizzazione del futuro e che rapporti possono costruire i paesi democratici con paesi non democratici dopo la scoppola presa negli ultimi mesi con la Russia. E la domanda giusta da porsi attorno a questo tema, attorno al tema dei progressi di un paese annacquati in un contesto di libertà violate, non è “ci si può fidare”, perché la risposta è ovvia, ma è “si può avere fiducia” che alcuni progressi mostrati negli anni possano continuare a esserci?

 

Non essere dipendenti da un unico paese, come era con la Russia, può essere certamente un modo per governare le deroghe al friendshoring ma il caso del Qatar, e i nostri rapporti con paesi dal profilo canagliesco, anche dopo i Mondiali promette di presentarsi spesso di fronte a noi sotto forma di un’altra domanda: dopo i disastri con la Russia, fino a che punto i paesi democratici possono spingersi per provare a esportare diritti attraverso le leve di una globalizzazione i cui confini difficilmente coincideranno con quelli dei paesi simili ai nostri? Si scrive Qatar, si legge realtà. Per i pessimisti, i Mondiali che si chiuderanno domenica saranno ricordati come una pagina oscena dello sport internazionale. Per gli ottimisti, e noi siamo tra quelli, si chiuderanno con la speranza che il contatto con il mondo occidentale, per i paesi come il Qatar, possa portare  a un progresso diverso da quello mostrato dalla Russia dopo i Mondiali del 2018.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.