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A Sharm el Sheikh

Alla Cop27 la sfida è superare ipocrisie e silenzi su clima ed energia

Alberto Clò

Se davvero si vuole eliminare la dipendenza dall'energia russa, non si può guardare al futuro senza interrogarsi su come accrescere la capacità produttiva degli idrocarburi. Altrimenti è solo retorica, senza pragmatismo. Intanto il governo italiano spinge per l’istituzione di un Fondo per il clima per i paesi in via di sviluppo

Il 6 novembre è stata ufficialmente inaugurata a Sharm el Sheikh la 27esima edizione della Conferenza delle Parti (Cop27), cui si stima possano parteciparvi sino a 45 mila delegati in rappresentanza di 197 paesi. A conferma di quanto calcolato dagli studiosi del Tyndal Center, secondo cui i partecipanti alle COP “sono tra i maggiori inquinatori per le emissioni prodotte volando in aereo alle conferenze”, in Egitto sono attesi oltre cento capi di stato e di governo, tra cui Joe Biden, Emmanuel Macron, Olaf Scholz, il neopresidente brasiliano Lula, e Giorgia Meloni. Mentre non vi partecipano Vladimir Putin e soprattutto Xi Jinping, presidente della Cina, maggior emettitore al mondo di gas serra (pari al 31 per cento del totale nel 2021) e Narendra Modi premier dell’India (12 per cento). Due paesi da cui dipenderà di più il futuro del riscaldamento globale. Manca anche l’icona ambientalista Greta Thunberg, a causa forse delle contestazioni che ha subìto dopo avere speso parole a favore del nucleare.

 

Quanto ai temi che dovranno affrontarsi – alla luce dei numerosi e drammatici eventi estremi accaduti quest’anno, specie in Pakistan –  sorprende dalle dichiarazioni che hanno preceduto il summit il silenzio sull’eccezionalità di quanto accaduto da un anno in qua, quasi che crisi energetica e guerra, esplosione dei prezzi energetici e insufficienza delle forniture di metano non abbiano profondamente alterato il contesto esterno entro cui i governi si trovano a dover intraprendere le loro decisioni. Sui contenuti sembra contare di più il “non detto” rispetto all’usuale retorica delle buone intenzioni e delle immani difficoltà da superare. Forse è per questa ragione che dei 197 paesi partecipanti solo 26 hanno presentato aggiornamenti dei loro piani nazionali (Intended Nationally Determined Contributions), non prevedendo altri miglioramenti nelle loro emissioni.

Come si possa guardare al futuro senza tener conto dell’esigenza, se si vuol eliminare la dipendenza dall’energia russa, di accrescere la capacità produttiva degli idrocarburi, è ascrivibile alla generale ipocrisia che attraversa le posizioni in campo. Dalla Gran Bretagna, che ha sospeso la moratoria sullo sfruttamento delle sue risorse di shale gas che potrebbero assicurarle una totale autosufficienza per i prossimi decenni, alla stessa Italia dopo che Meloni nel suo discorso di insediamento alla Camera ha dichiarato che “i nostri mari possiedono giacimenti di gas che abbiamo il dovere di sfruttare appieno”, capovolgendo la posizione assunta in occasione del referendum No Triv del 2016. Il governo italiano spinge per l’istituzione di un Fondo per il clima di 840 milioni euro all’anno per 5 anni da destinare ai paesi in via di sviluppo. Proposta che si inserisce nell’annoso tema del lost and damage (perdite e danni) che avrebbe dovuto impegnare le economie ricche a sostenere quelle povere nella riparazione delle conseguenze della crisi climatica, per un ammontare di 100 miliardi di dollari all’anno. Quel che non è accaduto, nella penosa discussione su come debba definirsi, nonostante i “solenni” impegni assunti sin dalla COP del 2009. Speriamo sia la volta buona, perché e nei paesi poveri che si possono conseguire i maggiori risultati nella riduzione delle emissioni, anche se non è il caso di farsi illusioni.  

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