Cop 27 al via in Egitto tra speranze, ipocrisie e dura realtà dei fatti

Alberto Clò

La ragione degli scarsi risultati conseguiti nelle Cop sono numerose. Ammettere alla conferenza la presenza di appena il 10 per cento delle fonti che assicurano la copertura dei fabbisogni energetici mondiali escludendone il 90 per cento non è segno di forza, ma ostacola quella cooperazione internazionale che si dovrebbe invece rafforzare

Dal 6 al 18 novembre si terrà in Egitto a Sharm-el-Sheikh, la 27° edizione della Conferenza delle Parti (Cop 27) organizzata dalle Nazioni Unite. Assise avviate dopo la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, che portò alla sottoscrizione del Trattato denominato Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) da parte di 154 stati (poi saliti a 197) che non fissava limiti obbligatori e legalmente vincolanti ai singoli stati per le emissioni di gas serra. Prevedendo però la possibilità che le parti firmatarie potessero adottare in apposite Conferenze annuali – appunto le Cop – ulteriori atti che consolidassero il percorso verso l’abbattimento delle emissioni sino a fissarne limiti obbligatori. La prima si tenne a Berlino nel 1995 presieduta da Angela Merkel, allora ministro tedesco dell’Ambiente, che nel discorso di apertura dichiarò che “The Greenhouse effect is capable of destroying humanity” anche se poi la Germania fece ben poco, molto meno di altri paesi, per impedirlo.

 

Tra pronunciamenti, auspici, promesse e dura realtà dei fatti, sta tuttavia una distanza siderale, che puntualmente si verifica ad ogni assise, come in quella dello scorso anno di Glasgow centrata sull’impegno di ridurre il ricorso al carbone: la fonte di energia che nel 2021 e probabilmente anche nel 2022 ha segnato il maggior incremento mondiale.

 

La ragione degli scarsi risultati conseguiti nelle Cop sono numerose: la gran pletora di soggetti che vi partecipano (nella città scozzese ben 40 mila persone); la numerosità degli argomenti da affrontare; la divergenza degli interessi dei paesi che hanno pari voce col vincolo del consenso per ogni decisione si debba adottare. Non può poi non evidenziarsi l’assenza nelle Cop di un effettivo confronto/scontro sulle soluzioni pratiche che si dovrebbero perseguire. Aver discriminato, a Glasgow, escludendola da ogni presenza, la voce delle industrie del petrolio, del metano, del nucleare, consentendo invece di parteciparvi a ogni sorta di organizzazione, ambientalisti, sindacati, sindaci, società di ricerca, giornalisti, opinionisti, movimenti giovanili e financo la British Dragonfly Society a difesa delle libellule, è stata scelta inopportuna, controproducente, incomprensibile. Ammettere la presenza di appena il 10 per cento delle fonti che assicurano la copertura dei fabbisogni energetici mondiali escludendone il 90 per cento non è segno di forza, ma di debolezza perché ostacola quella cooperazione internazionale che si dovrebbe invece rafforzare.

 

Il dibattito sul “che fare” finisce, infatti, inevitabilmente per svolgersi più all’esterno che all’interno di queste assise, depotenziandone il significato, al di là del testo conclusivo elaborato e approvato al termine di estenuanti negoziazioni che lasciano inevitabilmente dietro di sé scie di rancori che allontanano anziché avvicinare le parti coinvolte.

 

Viene allora alla mente la Cop 24 del 2018 che si tenne in Polonia, a Katowice, la città più inquinata d’Europa, che conobbe una vera e propria esaltazione del carbone. Temo che non diversamente accadrà alla Cop 27 in Egitto, paese che vede nel gas naturale e nel petrolio gli assi portanti della sua economia. Difficile che possa derivarne un j’accuse contro gli idrocarburi. Da quanto premesso deriva la conclusione che sia illusorio sperare che anche dal prossimo summit possano derivare esiti che abbiano un qualche seguito fattuale. Niente di più di “parole al vento”, come ebbe a commentare il premio Nobel per l’economia Jean Tirole commentando la Cop 15 di Copenaghen del 2009.

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