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Così Biden sta cercando di isolare la Cina sul petrolio del futuro, i chip

Ugo Bertone

I semiconduttori rappresentano il tallone d’Achille del colosso asiatico. Un punto debole che gli Stati Uniti hanno deciso di metter a nudo decretando una sorta di embargo mondiale sulle vendite a Pechino. Un provvedimento che avrà effetto anche sui cinesi con passaporto americano

I tre quarti della produzione mondiale di chip, pari a 556 miliardi di dollari, viene assorbita ogni anno dall’industria cinese. Ma, nonostante gli sforzi degli ultimi anni, solo il 15 per cento del fabbisogno arriva dalle fabbriche del Dragone. Potrebbe bastare questo dato per capire che i semiconduttori rappresentano il tallone d’Achille del colosso asiatico, costretto a dipendere dai prodotti made in Corea e in Taiwan. Un punto debole che gli Stati Uniti hanno deciso di metter a nudo decretando una sorta di embargo mondiale sulle vendite a Pechino di semiconduttori, la materia prima chiave del Ventunesimo secolo, più preziosa del petrolio: d’ora in poi, con effetto immediato, i chip venduti alla Cina, ovunque vengano prodotti, devono superare l’esame americano. Il vincolo, per la verità, riguarda solo i prodotti più sofisticati, quelli destinati alle tecnologie militari, con un occhio di riguardo per i supercomputer quantici piuttosto che per l’intelligenza artificiale. E nei primi giorni di applicazione delle nuove norme, Washington ha già autorizzato importanti cessioni alla regola generale a vantaggio delle coreane Samsung e Hinix nonché del colosso di Taiwan , la Tsmc, che potrà continuare ad alimentare l’industria dell’auto elettrica cinese, in piena espansione. 

 

Ma la mossa di Biden segna comunque un salto di qualità nel duello a distanza con il colosso giallo, per giunta inferto alla vigilia del Congresso del Partito. Una sfida che secondo gli analisti di Citi potrebbe portare al “momento Sputnik” della sfida tra le due superpotenze.  

 

Per garantirsi l’indipendenza tecnologica, Pechino dovrà puntare su una strategia simile a quella che l’America adottò per recuperare il ritardo sull’Unione Sovietica nella sfida spaziale. Impresa improba, dati i  costi: secondo il Boston Consulting Group, per centrare l’obiettivo la Cina dovrà impegnare almeno mille miliardi di dollari. Ma impresa non impossibile, vista la determinazione di Pechino  a insidiare la supremazia tecnologica dell’occidente che, però, risponde colpo su colpo. Ne sa qualcosa l’olandese Asml, leader incontrastato nella produzione di macchinari per i chip. Biden in persona, ancor prima della recente legge, aveva intimato al premier olandese di vietare la vendita dei macchinari più avanzati alla cinese Smic che, pare, sia comunque riuscita a trovare il modo per sviluppare, seppure ad alto costo, chip d’avanguardia.

Ma a pagare il prezzo sono anche, se non di più, i produttori americani più sofisticati, da Amd a Nvidia, che con Pechino perdono il loro cliente migliore. Nell’attesa che Washington dia il via ai nuovi investimenti previsti dal Chips Act, il provvedimento che stanzia 53 miliardi di dollari per investimenti che consentiranno di riportare in America il centro di un’industria basata su Taiwan e Corea del sud, oggi considerata troppo vicina, dal punto di vista geostrategico, al “nemico” cinese. Dietro alla sfida tecnologica, infatti, si profila un nuovo passo indietro nell’integrazione culturale tra i due mondi che sembrava a portata di mano nei giorni della globalizzazione. 

 

A partire dal dramma degli haigui, ovvero le “tartarughe di mare”, il termine utilizzato per indicare i manager e i tecnici tornati in Cina dopo aver studiato e lavorato Oltreoceano. Il nuovo provvedimento americano, infatti, non si limita a controllare ed eventualmente vietare la vendita alla Cina di chip che incorporano un know how americano, ma si estende anche alle persone. I cittadini con passaporto americano o con permesso di soggiorno non potranno, pena la perdita dei diritti, aiutare “lo sviluppo, la produzione e l’impiego di alcune tecnologie in stabilimenti situati in Cina”. Il risultato? “Una fetta rilevante della  classe dirigente cinese  si trova di fronte ad un vero dilemma”, commenta Kenji Kawase, caporedattore business del giapponese Nikkei Times, “Perdere la cittadinanza americana, il paese dove hanno spesso fatto fortuna e dove risiedono le famiglie o rompere i legami con l’industria cinese?”, che pure non può fare a meno oggi più che mai della loro competenza. Soprattutto adesso perché, come dimostra la profonda crisi del comparto tech della Borsa di Hong Kong, i colossi del digitale pagano un pesante prezzo al ritorno dell’egemonia della politica sul business. Ma la sfida dello Sputnik richiede uomini ancor più che capitali.
 

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