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La Cina di Xi e noi, una coppia da disaccoppiare

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Si apre il Ventesimo congresso del Partito comunista, dall’esito scontato. Ma l’Ue deve ancora stabilire una strategia unita. Le lezioni russe e una marca di sigarette

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato che andrà in Cina con  un gruppo di imprenditori all’inizio di novembre, il 3 e il 4. E’ la prima visita dopo gli anni sedentari del Covid e dopo che l’invasione russa dell’Ucraina ci ha costretti a rivedere le nostre relazioni con il mondo, ancor più con il regime di Xi Jinping. Va detto che Scholz potrebbe non essere l’unico ad andare a Pechino: probabilmente ci andrà anche il presidente francese Emmanuel Macron e forse altri ancora. A metà novembre c’è il G20 a Bali, in Indonesia, di cui già sentiamo parlare (con un carico di illusioni intenibile) come un possibile assembramento foriero di negoziati e tregue: molti leader potrebbero approfittarne anche per passare alla corte di Xi. Certo, che a cominciare sia Scholz fa un certo effetto dalle nostre parti, dal momento che la politica verso est dell’Europa è stata in gran parte determinata dalle decisioni prese a Berlino. Non ci avventureremo qui nella questione russo-tedesca, che è piena di passi avanti e indietro, di tentennamenti e di scudi missilistici, ma una cosa va sottolineata: l’Europa non è più il posto della pace. Averci riportato in guerra è una responsabilità grave di Vladimir Putin ma anche la dimostrazione che la pax economica non è più garanzia di pace assoluta. Se pensiamo che con la Cina non c’è nemmeno una pax economica, è facile capire perché la progettazione dei rapporti futuri con Pechino è altamente strategica.

 

La Germania è il principale partner commerciale europeo della Cina e spinge per continuare gli scambi tra Ue e Pechino, ultimamente irrigiditi anche perché  il regime cinese vìola i diritti civili, in particolare quelli degli uiguri. Scholz ha criticato il Consiglio dei diritti umani dell’Onu che ha votato contro l’apertura del dibattito sul report sempre dell’Onu che documenta le violazioni sistematiche dei diritti nello Xinjiang, ma è anche contrario alla cosiddetta strategia del “decoupling”, il disaccoppiamento, introdotta dagli Stati Uniti  che mira a non creare troppe dipendenze pericolose con il regime cinese: ieri il presidente americano Joe Biden ha definito la Cina “la più importante sfida geopolitica”. In una conferenza di imprenditori a Berlino degli scorsi giorni, Scholz ha detto, secondo quanto riportato da Bloomberg: “La globalizzazione è una storia di successo che ha portato benessere a molte persone. Dobbiamo difenderla. Il decoupling è la risposta sbagliata”. Era presente anche il vicepresidente della Commissione europea, il lettone Valdis Dombrovskis, che ha detto: “Le nostre relazioni commerciali hanno bisogno di maggior equilibrio e reciprocità. Direi che dobbiamo concentrarci sulla diversificazione e su una migliore gestione del rischio. In parallelo, l’Ue deve continuare a lavorare con la Cina con pragmatismo e senza ingenuità”. Stiamo attenti, insomma, ma gli affari vanno avanti. Come è facile immaginare, non tutti sono d’accordo, e l’esperienza con Putin pesa. 

 

La linea dura dei Verdi. Le differenze pesano anche dentro alla coalizione tedesca formata dai socialdemocratici di Scholz, dai liberali e dai Verdi, che sostengono una linea dura nei confronti della Cina. Reinhard Bütikofer, eurodeputato verde, da tempo mette in guardia Berlino sul futuro delle relazioni con Pechino. Bütikofer sostiene che l’arrivo di Xi Jinping e il mantenimento del suo potere impongono alla Germania di perseguire un cambiamento a livello diplomatico che, in ultima istanza, deve portare a ridurre sensibilmente le dipendenze dalla Cina. Per allontanarsi da Pechino e prendere le distanze dalla politica estera e sui diritti umani di Xi le cose da fare sono: sviluppare una propria competitività e forza tecnologica, migliorare la cooperazione con partner non soltanto europei o americani, ma anche con i paesi asiatici o del sud del mondo. “Deve essere chiaro alla leadership cinese che deve pagare un prezzo straordinariamente alto” per le sue politiche. Solo così la Germania può davvero fare gli interessi dell’Europa, del multilateralismo, della stabilità e dell’ambiente. Spiega Bütikofer che non è la Cina il problema, le relazioni diplomatiche con Berlino sono iniziate nel 1972, quando le aspettative erano diverse. Sono i piani di Xi che rendono improbabile la convivenza di un paese democratico e che si dice attento ai diritti umani e alla sicurezza internazionale, al fianco di una potenza rapace. 

 

Il pericolo /1. Josep Borrell, il capo della diplomazia europea che ci ha abituati ai suoi toni felpati, è stato due giorni fa inusitatamente molto diretto. Alla conferenza annuale degli ambasciatori europei, ha detto che “stiamo soffrendo le conseguenze di un processo durato anni in cui noi europei abbiamo disaccoppiato le fonti della nostra prosperità da quelle della nostra sicurezza”, affidandoci all’energia russa e al mercato cinese per la prosperità e agli Stati Uniti per la sicurezza. E’ un sistema che non regge più, spiega Borrell, non soltanto per questioni economiche e geopolitiche ma anche nella lotta valoriale più ampia tra libertà e autoritarismo: “Quando diciamo che la Cina è il nostro rivale sistemico diciamo che i nostri sistemi sono rivali. E i cinesi spiegano al resto del mondo che il loro sistema è superiore: forse non potete scegliere chi guida il vostro governo, dicono loro, ma avrete cibo, riscaldamento, servizi sociali, una buona qualità della vita”. Noi cosa diciamo? “La nostra lotta è di spiegare che cos’è la democrazia, la libertà, la libertà politica e che non sono una merce di scambio in nome della prosperità economica e della coesione sociale”. 

 

Il pericolo /2. Jeremy Fleming, direttore dell’Agenzia del governo inglese che si occupa di intelligence, sicurezza e cybersicurezza, ha parlato poche ore dopo Borrell al centro studi Rusi a Londra e ha detto: con la Cina “siamo di fronte un momento della storia che è una sliding door”. Pechino si è costruita  un vantaggio strategico modellando l’ecosistema tecnologico mondiale, e noi dobbiamo chiederci: ci va bene, ne siamo contenti? “La tecnologia non è soltanto un’area di opportunità, competizione e collaborazione”, ha detto Fleming, “è un campo di battaglia per il controllo, per i valori, per l’influenza” che si riesce a esercitare su stati e persone. Ipotecare il nostro futuro adattandoci alla visione della tecnologia che ha la Cina può sembrare comodo oggi, visto che siamo in crisi, ma “nel lungo periodo i costi ora nascosti delle soluzioni a buon mercato che offre Pechino diventeranno evidenti”, e non saremo pronti a pagarli. Secondo Fleming, la Cina sta prendendo appunti su quel che fa la Russia e si vuole tutelare anche in modo finanziario per non patire le conseguenze che oggi subisce Mosca  con le sanzioni occidentali se mai dovesse decidere di invadere Taiwan. Le preoccupazioni di Fleming sono in linea con quel che si vocifera a Londra in questi giorni e che prevede un cambio di passo importante: la premier Liz Truss potrebbe dichiarare la Cina “una minaccia”. Nel 2021, l’ex primo ministro Boris Johnson l’aveva definita un “concorrente sistemico”. 

 

L’uomo di Xi a Bruxelles. La Cina ha nominato un nuovo ambasciatore presso l’Unione europea, dopo quasi un anno che il posto era rimasto vacante: sarà Fu Cong l’incaricato di gestire i rapporti diplomatici con le istituzioni europee. 57 anni, direttore generale del Dipartimento per il controllo degli armamenti del ministero degli Esteri, è un funzionario di vecchia data che ha lavorato anche presso l’Onu e l’Organizzazione mondiale della sanità: sa come muoversi. Pechino ha impiegato molto per scegliere un nuovo ambasciatore e a Bruxelles si vociferava che l’attesa fosse un segnale del fatto che l’Ue per Pechino non è più una priorità, oppure del fatto che le relazioni tra Bruxelles e Pechino sono definitivamente deteriorate. La frattura si è consumata lentamente, proprio quando sembrava che, trainati dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, gli europei fossero pronti a sancire l’intesa finale con il trattato Cai, l’accordo bilaterale per gli investimenti, siglato in tutta fretta prima dell’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. Sembrava fatta, invece le cose a un certo punto sono cambiate. Il 22 marzo del 2021 i ministri degli Esteri dell’Ue varano un pacchetto di sanzioni contro i funzionari cinesi ritenuti responsabili delle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, la regione autonoma luogo della repressione degli uiguri da parte di Pechino. I cinesi rispondo sanzionando vari rappresentanti delle istituzioni europee, tra cui Bütikofer. La rappresaglia affossa il Cai, gli europei iniziano ad aprire dibattiti sui diritti umani, sulla possibilità di un divieto di importazione per i prodotti che vengono dallo Xinjiang. La frattura si è fatta sempre più profonda. Fino all’approvazione da parte della Commissione europea, nel febbraio scorso, del Chips Act, il pacchetto di leggi sui semiconduttori che prevede 43 miliardi di euro per raddoppiare la produzione  di chip nell’Unione. Se davvero, come sembra, la taiwanese Tsmc, la più grande e strategica produttrice di chip al mondo, dovesse investire in Germania, Berlino avrebbe un vantaggio competitivo immenso rispetto agli altri paesi europei sul settore tecnologico.
 


Proprio mentre in Cina ci sarà il Congresso, il Ventesimo e il più importante della storia recente, in cui con ogni probabilità Xi Jinping sarà riconfermato per un inedito terzo mandato, i leader dell’Ue si riuniranno per parlare anche di Cina: potrebbe essere l’occasione in cui i due approcci europei su Pechino si confronteranno, ma secondo alcuni saranno soltanto l’occasione per riaffermare le relazioni attuali, senza tenere conto che a Zhongnanhai, la sede del Partito comunista cinese, troveranno sempre lo stesso interlocutore, determinato a rendere la politica cinese sempre più incompatibile con i valori europei.  Zhongnanhai fissa giorno e notte la città Proibita. Ci piace pensare che Xi Jinping, tra le sue stanze, ascolti in segreto la canzone dei Carsick Cars “Zhongnanhai”, che in Cina è anche una marca di sigarette fatta apposta per Mao. I Carsick Cars cantavano: “Fumo solo Zhongnanhai. Non posso vivere senza Zhongnanhai”. Chissà se Xi, che ha smesso di fumare negli anni Ottanta, tra i nuovi poteri presi al Congresso non pretenderà anche un marchio di sigarette (elettroniche) tutto per sé.

(hanno collaborato Giulia Pompili 
e Priscilla Ruggiero)

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