Giorgia Meloni tra l'Orso e il Dragone

Giulia Pompili e Valerio Valentini

La leader di Fratelli d'Italia sarà costretta ad archiviare il filoputinismo e la tentazione cinese di Salvini e Cav. È in uscita un libro fogliante di Giulia Pompili e Valerio Valentini

Come sarà l’approccio del prossimo governo Meloni alla Russia e alla Cina? Ci saranno  segnali di continuità o discontinuità con il governo Draghi e con  i suoi alleati di governo? Quelli che trovate in questa pagina sono due interventi e due estratti dal libro di Giulia Pompili e Valerio Valentini “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” (Mondadori Strade Blu) da oggi in libreria. 


  

"Le segnalazioni erano insistenti. Accenni di lagnanza, brevi allusioni che Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, riceveva con un atteggiamento di indolenza mista a frustrazione. Poi, nella primavera di quell’anno, il 2019, quando alcuni suoi collaboratori volarono in Russia per una missione diplomatica, la lamentela si fece quasi formale. Perché fu allora, durante incontri riservati, che alcuni responsabili dell’ambasciata italiana a Mosca segnalarono a funzionari di Palazzo Chigi lo strano attivismo di due leghisti legati all’Associazione Lombardia-Russia, i quali molto spesso contattavano imprese che pianificano investimenti a Mosca o San Pietroburgo proponendosi come consulenti, fornendo suggerimenti, dritte, prospettando opportunità. Che lo facessero per un tornaconto personale, per guadagnarci cioè qualcosa in prima persona, o magari per rimpinguare le casse della loro associazione, era un sospetto diffuso ma mai dimostrato. Che però certi loro movimenti destassero inquietudine nei diplomatici italiani, che quelle mosse fossero state indagate anche dal Cremlino, questo era evidente. ‘Per cui – chiesero i diplomatici italiani – vorremmo sapere come dobbiamo relazionarci a loro’. Un paio di mesi dopo, si comprese che quelle ansie non erano infondate. Perché in quel momento Gianluca Savoini e Claudio D’Amico finiscono al centro di una polemica internazionale.

 
A metà luglio del 2019 il giornale americano Buzzfeed pubblica infatti le registrazioni dell’incontro tra tre uomini italiani e tre russi nella hall dell’Hotel Metropol. A febbraio, di quel vertice alquanto losco, avvenuto all’alba del 18 ottobre precedente, ha già scritto l’Espresso. Ma Matteo Salvini ha liquidato il tutto con una mezza alzata di spalle: ‘La solita macchina del fango’. E invece negli audio, ora, si ascolta distintamente la voce di Savoini discutere in inglese, coi suoi interlocutori russi, dei futuri sviluppi politici in vista delle elezioni europee del maggio 2019, della volontà di Salvini di cambiare l’Europa alla Russia, di renderla indipendente ‘dalle decisioni degli illuminati di Bruxelles e degli Usa’, e poi si finisce a discutere di strani procedimenti di compravendita di petrolio, contratti tra banche e aziende del settore oil and gas russe e italiane. Il tutto, poche ore dopo un incontro riservato tra il ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio Salvini, che è in viaggio a Mosca per un evento organizzato dalla Confindustria italiana in Russia, e il vicepremier russo Dymitri Kozak, che ha la delega per l’energia. Se al fondo di questi colloqui ci sia il tentativo di ottenere finanziamenti alla Lega non è accertato. Salvini lo nega, e va detto che finora le inchieste di giornali e magistratura non sono state in grado di provarlo.

 

  
Certo è che alcune dichiarazioni del leader leghista, nel passato recente, sembrerebbero legittimare alcuni dubbi. E’ il dicembre del 2014 quando Salvini, segretario del Carroccio, anziché celebrare a Milano, come si conviene, il ponte di Sant’Ambrogio, decide di trascorrerlo a Mosca, in visita alla Duma. Anche in quel caso, tra i vari impegni tutti esibiti con foto e tweet d’ordinanza, l’agenda ufficiale di Salvini, accompagnato da Savoini, vede un buco di quattro ore. Dov’è Matteo? La domanda si fa insistente specie dopo che lui, tornato a favore di telecamere, scherzando chissà fino a che punto dice che non rifiuterebbe affatto un prestito da una banca russa. La dichiarazione è in verità anche una cattiveria verso quello che è allora il suo sfidante interno, il sindaco di Verona, quel Flavio Tosi che è anche lui attivo sul fronte orientale e molto in simpatia con Antonio Fallico, dirigente di Banca Intesa a Mosca e nominato console onorario della Federazione russa nel capoluogo scaligero fin dal 2008. ‘I soldi da una banca russa? Li accetterei da chiunque mi offrisse condizioni migliori di Banca Intesa’. Non esattamente una battuta rassicurante, insomma. 

  
Ma qui, al di là della eventuale caccia ai rubli, per ora infruttuosa, interessa il contesto. Perché il responsabile del Viminale, la persona più alto in grado nel governo italiano, dopo Giuseppe Conte e al pari di Luigi Di Maio, in quel 17 ottobre, all’assemblea generale di Confindustria a Mosca, dichiara che ‘io qua mi sento a casa mia, in alcuni paesi europei no?’. Perché un suo strettissimo collaboratore come Savoini si sente in dovere di prospettare a funzionari russi il progetto leghista di stravolgere gli equilibri europei? Perché il compagno più fidato di Savoini, Claudio D’Amico, è stato scelto dal vicepremier Salvini come suo consigliere politico per gli affari esteri a Palazzo Chigi?

 
Sembra intravedersi un disegno preciso, lungamente studiato, per ridefinire la bussola strategica della Lega e della stessa Italia, magari perseguendo quell’uscita dalla Nato di cui Salvini ha spesso parlato, prima di arrivare al governo, e la costruzione di un asse privilegiato tra Roma e Mosca. E però, forse, tutto avviene in modo più confuso di così, in un misto di sprovvedutezza e di azzardo”.

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Ecco, quando dovrà discutere coi suoi alleati di governo della politica estera italiana, Giorgia Meloni si vedrà costretta a tenere conto di questo: non tanto e non solo dei residui di filoputinismo che intaccano ancora, come incrostazioni ormai calcificate che non basta una guerra a rimuovere, larga parte dei vertici della Lega, ma anche della perenne tentazione, da parte di Salvini e dei suoi consiglieri, di cercare nella strambata estrema, nell’avventatezza di un viaggio a Mosca organizzato da improbabili consulenti e giornalisti amici e senza alcuna condivisione con Palazzo Chigi, il guizzo che garantisce la visibilità sui giornali, i like sui social, insomma la diavoleria che possa alimentare la famelica macchina della propaganda. E questa perenne ansia da pokerista diplomatico – della serie: voglio essere il primo politico italiano che va al confine con l’Ucraina, e pazienza se poi un anonimo sindaco di una cittadina polacca mi svergogna in mondovisione – è ciò che potrebbe rendere Salvini un alleato piuttosto inaffidabile per chi, come Meloni, sa di dovere offrire garanzie granitiche sulla tenuta euroatlantica del suo futuro esecutivo. Del resto, è vero che la leader di FdI nel recente passato ha solo velatamente accarezzato il putinismo come il mito di un uomo forte al comando. E pure i suoi ripetuti interventi contro le sanzioni a Mosca all’indomani dell’annessione illegale della Crimea da parte del Cremlino possono considerarsi superati da una fermezza innegabile mostrata nell’ultimo anno sul fronte della guerra in Ucraina. Ma con la Lega di Salvini, Meloni condivide alcune ragioni profonde del sovranismo di destra (e non solo di destra) che stanno poi alla base dell’irresponsabilità salviniana in politica estera. Il salto nel vuoto dell’antieuropeismo ha imposto di cercare nuove amicizie, nuovi legami diplomatici e commerciali, e spesso di farlo con un servilismo spregiudicato; il mito del sovranismo si è risolto nel tentativo di trovare nuovi protettori, di rendersi strumenti del disegno strategico di regimi antidemocratici. Vale per la Russia, ovviamente. E vale, allo stesso modo, anche per la Cina. 

 

  

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“Il giorno in cui cambia tutto è il 25 gennaio del 2019. Il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, arriva a Roma con una piccola delegazione per partecipare all’annuale sessione del Comitato governativo Italia-Cina, l’organismo coordinato dalla Farnesina e definito il “principale meccanismo di impulso e indirizzo politico del Partenariato strategico tra i due paesi”. L’obiettivo più informale della visita, però, è la preparazione del viaggio di stato del leader cinese Xi Jinping in Italia. Dal palazzo del ministero degli Esteri italiano, alla presenza di diversi giornalisti, Wang Yi e l’allora ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi fanno sapere che i due paesi stanno lavorando a stretto contatto per arrivare alla firma del memorandum of understanding, la firma di un’intesa per far entrare ufficialmente l’Italia nella Via della Seta. L’impossibile sta diventando reale. […] In Italia si scatena un dibattito surreale. C’è chi confonde l’intesa (tecnicamente: un memorandum of understanding) con un trattato vincolante. C’è chi accusa i sospettosi di essere manipolati dalla politica estera della Casa Bianca, all’epoca guidata da Donald Trump, che già da tempo cercava di contenere la capacità egemonica della Cina soprattutto nel settore della tecnologia e delle telecomunicazioni.  Il paese dell’operetta, governato in quel periodo da una coalizione populista e improvvisata, si ritrova al centro di una battaglia tra Washington e Pechino, e incredibilmente riesce a trasformare anche lo scontro del secolo in un dibattito da talk show trash. […] In questo caos Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro atlantista di Matteo Salvini, vola a New York e Washington. E’ in quel viaggio che capisce che la priorità dell’Amministrazione Trump è il contenimento della Cina, e forse qualcuno gli spiega anche quanto pericoloso sia, per la sicurezza nazionale, affidare per esempio la costruzione dell’infrastruttura del futuro, il 5G, a colossi cinesi come Huawei. E’ lì che gli spiegano quanto sia importante che l’Italia si sfili da progetti che riguardano settori sensibilissimi, come quelli della Difesa e aerospaziali. Quando Giorgetti rientra in Italia, infatti, Salvini inizia un’operazione acrobatica: prendere le distanze dalla Cina ma non troppo. ‘Se si tratta di aiutare imprese italiane ad investire all’estero siamo disponibili a ragionare con chiunque.  Se si tratta di colonizzare l’Italia e le sue imprese da parte di potenze straniere, no’, dice a margine del consiglio federale della Lega l’11 marzo del 2019, seduto accanto a Giorgetti, a chi gli chiede della volontà del governo di entrare nella Via della Seta. ‘E aggiungo che questa non è la posizione di Giorgetti ma di tutta la Lega’. Il riferimento è chiaramente al sottosegretario Geraci, che invece continua a sostenere – sulla stampa italiana e su quella internazionale – la necessità di istituire rapporti ancora più stretti con la Cina. […] Tra le forze politiche all’opposizione, il Partito democratico si muove un po’ in ordine sparso. All’inizio del 2019 il partito di centrosinistra è ancora senza leadership: si passa dalla fine dell’èra di Matteo Renzi e si devono organizzare le primarie. Gli iscritti al Pd scelgono, il 7 marzo del 2019, Nicola Zingaretti come nuovo segretario. E una decina di giorni dopo, quando gli viene chiesto che cosa pensa della Via della Seta, Zingaretti risponde: ‘Mi sembra l’ennesimo pasticcio al quale ci ha abituati questa maggioranza, perché un accordo di questa rilevanza avrebbe avuto bisogno di ben altri passaggi parlamentari’. Qualche giorno dopo, il 19 marzo del 2019 – cioè a ridosso della firma – l’intero gruppo parlamentare del Partito democratico al Senato deposita un’interrogazione a risposta orale in cui si chiede di sapere ‘quali siano i reali intendimenti del governo in merito alla firma del memorandum di adesione alla Belt and road initiative’ (l’atto, sul sito del Senato, risulta ancora in corso). Tra i pochi ad avere le idee chiare sulla faccenda è chi conosce bene il commercio estero e la Cina, cioè l’ex sottosegretario Scalfarotto – che aveva accompagnato anche Mattarella in visita di stato a Pechino. In un intervento alla Camera definisce il memorandum un ‘tragico errore’ e risponde a Conte: ‘Ma lei ci vuole far credere che il presidente cinese Xi Jinping viene da Pechino a Roma per firmare un accordo che non vale niente?’. Anche la destra è spaccata. Per Forza Italia si tratta di un accordo pericoloso. Il leader Silvio Berlusconi, durante la campagna elettorale in Basilicata, dice che la Cina ‘dovrebbe far paura a tutti per quello che è. E’ un paese comunista, totalitario, che ha un regime politico ed economico che non è di libero mercato e che ha messo in campo un piano di egemonia nei confronti di tutto il mondo’. La leader di Fratelli d’Italia, invece, parla pochissimo di Cina (in generale di politica estera). Il 22 marzo, in tour elettorale, da Matera Meloni dice: ‘Oggi si parla tanto di Cina, ma vogliamo fare gli accordi con la Cina non vogliamo fare gli accordi con la Cina. Certo che dobbiamo dialogare con la Cina per carità, certo che dobbiamo fare i memorandum con la Cina per carità, ma già che ci mettiamo seduti col governo cinese possiamo anche chiedere loro di darci una mano contro la concorrenza sleale che le aziende cinesi fanno anche in Italia, con miliardi e miliardi di evasione fiscale?’”.

 
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Il 24 settembre scorso, il giorno prima delle elezioni generali, Giorgia Meloni diventa improvvisamente protagonista di un botta e risposta tra ambasciata della Repubblica popolare cinese e rappresentanza diplomatica di Taiwan in Italia. Ventiquattro ore prima era uscita un’intervista alla leader di Fratelli d’Italia sulla  Central News Agency taiwanese, l’agenzia di stampa statale più importante dell’isola che la Cina rivendica come proprio territorio. Non era un’intervista scontata: erano decenni che un candidato alle elezioni italiane non rilasciava dichiarazioni ai media taiwanesi e su temi piuttosto caldi nella diplomazia internazionale, e Meloni ha detto ai taiwanesi esattamente quello che vogliono sentirsi dire: a queste condizioni, adesso, non rinnoverebbe la Via della Seta, e se ci fosse un conflitto militare nello Stretto di Taiwan, avrà un impatto diretto sull’Europa, perché l’Ue è anche il principale mercato di esportazione della Cina, e quindi “se decidessero di attaccare Taiwan, ciò potrebbe portare alla chiusura del mercato”. La reazione (probabilmente voluta) dell’ambasciata cinese in Italia è arrivata subito dopo: “La parte cinese ha notato alcune osservazioni negative che sfruttano la questione di Taiwan per stimolare un approccio ostile nei confronti della Cina. Di ciò  manifestiamo il nostro forte malcontento e la ferma opposizione”, ha fatto sapere il portavoce. “Siamo profondamente indignati nel constatare ancora una volta le ingerenze della Repubblica popolare cinese negli affari interni degli altri Paesi attraverso le dichiarazioni della propria ambasciata in Italia in questi giorni”, ha risposto l’ambasciata taiwanese. Qualche settimana prima, la leader di Fdi aveva pure pubblicato su Twitter una sua foto con il rappresentante di Taiwan in Italia, Andrea Sing Ying Lee: il primo incontro in assoluto tra i due che aveva un significato molto, molto politico. Ma non tanto verso Pechino, quanto verso Washington. Perché nella spasmodica ricerca di approvazione transatlantica, Meloni e Fratelli d’Italia hanno infatti preso a cuore la questione più delicata per l’America in questo momento: i rapporti con la Cina. E per andare contro la Cina, come da ormai tradizione Trumpian-Bannoniana, il partito italiano si è ritrovato dunque a sostenere Taiwan. Lo dimostra la presenza tra le fila del partito di un personaggio noto nella comunità internazionale per il suo attivismo anticinese, Giulio Terzi di Sant’Agata, di cui si fa spesso il nome per il ministero degli Esteri del governo Meloni. Nei rapporti con Pechino si configurerà uno dei punti più interessanti di continuità del governo a guida Fratelli d’Italia con quello di Mario Draghi, ma per ottenere una credibilità internazionale, sarà necessario per Meloni dare sostanza alla sua opposizione agli autoritarismi. La presenza dei leghisti delle sbandate pro-Cina nel suo governo, l’amicizia con l’ala più trumpiana dei repubblicani americani – compresi personaggi caduti in disgrazia come Steve Bannon e come il teorico del collasso della Repubblica popolare cinese, Gordon Chang, sono le sue spine nel fianco. 

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