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Il baciamano

La regina Elisabetta e il suo quindicesimo premier

Alberto Mattioli

Il primo fu Churchill, martedì arriverà il prossimo, ma non a Buckingam Palace, il rito sarà a Barmoral. Come se Giorgia Meloni giurasse a Castelporziano. Ma queen Elizabeth ne ha visti tanti, di primi ministri: eccone una storia

La notizia è che, il 6 settembre, il nuovo primo ministro britannico potrebbe “baciare le mani della Regina”, secondo la formula sacramentale che lo fa entrare in carica, non a Buckingham Palace o a Windsor, ma a Balmoral, il castello scozzese di Elisabetta II. Lo scrive il Sun, di solito ben informato. La speranza, ovviamente, è che il vincitore dello spareggio tory fra Liz Truss e Rishi Sunak baci le mani di Elisabetta e non quelle di Carlo. Le voci sull’allarmante stato di salute della Regina infinita si moltiplicano, come se non bastasse la semplice constatazione che ha 96 anni. Che abbia difficoltà di deambulazione è noto, anche se non vuole assolutamente farsi vedere sulla sedia a rotelle. Domenica scorsa non si è presentata al Servizio divino nella chiesetta che frequenta di solito. E all’ultimo momento ha rinunciato anche ad assistere, in questo fine settimana, ai giochi di Braemar, una specie di Olimpiadi scozzesi dove degli omoni in kilt si sfidano al tiro alla fune o al lancio del tronco. Incredibilmente, i Windsor ci si divertono pure, ma si sa che Sua Maestà ha molte qualità però, quanto a interessi, non va oltre le sue tre adorate “c”: campagna, cani e cavalli, non necessariamente in quest’ordine.

 

Certo, che la cerimonia si svolga a Balmoral è una novità: come se Giorgia Meloni, l’autunno prossimo, giurasse non al Quirinale ma a Castelporziano. Poco importa che Elisabetta, come tutti i suoi familiari, detesti quello che chiama “BP”, Buckingham Palace. Vivere lì, diceva la sua governante Marion Crawford detta “Crawfie”, significava “fare del campeggio in un museo”, o almeno era così negli anni Cinquanta quando nei saloni pioveva e ci scorrazzavano i topi. A Balmoral invece la Regina sta bene, benché sia una mostruosità architettonica iperkitsch in stile neotutto (l’interno, comunque, è peggio) inventata dalla Regina Vittoria che voleva conquistare gli scozzesi, da sempre ostili agli Hannover che avevano scippato il trono agli Stuart autoctoni.

 

Vittoria arrivò anche a pubblicare un Diario della nostra vita familiare nelle Highlands, che se esistesse il Nobel della noia lo vincerebbe, ma che permetteva a Benjamin Disraeli di titillarle l’orgoglio letterario apostrofandola con “Noi autori, Ma’am…”. E poi il sito piaceva al principe Alberto, perché gli ricordava la natìa Coburgo. Però è la prima volta che ospiterà il “kissing hands” di un premier (potrebbe anche essere la prima volta che a kissing sia un premier di origini indo-africane: a Vittoria sarebbe molto piaciuto). C’è tuttavia un illustre precedente, e addirittura all’estero. Nel 1908, HH, cioè Herbert Henry Asquith, baciò le mani del bisnonno di Elisabetta a Biarritz. Crisi di governo o meno, Edoardo VII non aveva infatti ritenuto di dover interrompere il suo soggiorno in Francia, dove sgavazzava allegramente in compagnia del più stabile dei suoi affetti, non la Regina Alessandra ma miss Alice Keppel, guarda caso antenata di Camilla maritata Carlo.

 

Truss o Sunak sarà il suo quindicesimo premier. Elisabetta ha cominciato con Churchill e finito, per ora, con Johnson, che è quasi altrettanto grave che passare da De Gasperi a Conte. In mezzo, settant’anni di regno e rapporti altalenanti con tutti i primi ministri: non ha litigato con nessuno, o almeno non ha mai lasciato che si sapesse, ma è chiaro che ci sono stati alti e bassi. Regina non ancora ventiseienne, trovò a Downing Street quel vecchio istrione di Churchill, gloria nazionale e amico di suo padre Giorgio VI, che all’inizio lo detestava come tutto l’establishment britannico però poi capì che era l’uomo giusto per perdere la guerra ma facendo finta di averla vinta.

 

A molti, il rapporto fra la giovane Elisabetta e il vecchio Winston ricordò quello di Vittoria diciottenne con il suo primo primo ministro, William Lamb, secondo visconte Melbourne, un whig ancora cinicamente settecentesco e meravigliosamente blasé: quando il predecessore di Vittoria lo incaricò di formare un governo, fu indeciso se accettare perché considerava “una dannata noia” (parole sue) incontrare Guglielmo IV, “uno zotico semi imbecille” (queste sono invece di Jacques Chastenet). Fu convinto dal suo segretario che gli disse che il premierato ne valeva comunque la pena, al che Lord M. rispose: “Per Dio, è vero: lo farò” (fra parentesi, altri detti memorabili del Nostro, da meditare e applicare anche oggi: “Non cercate di fare del bene, così sarete sicuri di non avere noie”; “L’unico dovere del governo è di impedire i delitti e garantire il rispetto dei contratti”; e una volta, aprendo una riunione di gabinetto: “Signori, è mezzogiorno meno un quarto: cerchiamo di finire a mezzogiorno che è l’ora del mio bicchiere di xeres”. Veneriamo).

 

Vittoria se ne innamorò perdutamente: andavano insieme a cavalcare a Hyde Park, e una volta la Regina fu apostrofata dalla plebaglia come “lady Melbourne”. Però il paragone con la coppia Elisabetta-Churchill non regge fino in fondo: alla sua ascesa al trono, Elisabetta era più adulta e molto più preparata della nonna di suo nonno, mentre Churchill perdeva colpi e molto spesso non era in grado di delucidare la Regina su certe decisioni perché semplicemente non ricordava di averle prese. In ogni caso, le loro udienze duravano a lungo perché, raccontò Winston, parlavano soprattutto di cavalli.

 

C’è però una foto di straordinaria tenerezza scattata davanti al numero 10 di Downing street il 4 aprile 1955, quando Elisabetta andò alla cena d’addio del suo premier che andava finalmente in pensione. Il vecchio leone, in frac e culottes con la Giarrettiera al polpaccio, tiene aperta la porta della berlina a un’Elisabetta sfolgorante di giovinezza e diamanti, quasi un passaggio di consegne fra la vecchia e la nuova Inghilterra.
Elisabetta è andata a cena dal suo primo ministro soltanto due volte: da Churchill, appunto, e da Harold Wilson, che le stava assai simpatico. Purtroppo, era laburista e quindi circondato talora da sgradevoli repubblicani. Come Wedgwood Benn, ministro delle Poste, che presentò alla Regina le bozze di una serie di francobolli dove l’augusto profilo di Elisabetta non compariva.

 

Lei abbozzò, poi fece sapere a chi di dovere che non era contenta e i nuovi francobolli finirono nel cestino. Anni dopo, Elisabetta ritrovò Benn, nel frattempo promosso (o retrocesso) a ministro per la Tecnologia, e lo salutò così: “Sono certa che le mancheranno i suoi francobolli”. Negli anni Sessanta, comunque, i guai per la Regina arrivarono piuttosto dai conservatori. Prima di dotarsi di regole certe per la leadership, fra i papabili tory la scelta veniva effettuata attraverso misteriose, opache manovre da club di gentlemen. Per due volte di fila, il partito si trovò con un premier uscente e in assenza di un leader: nel ’57, quando Anthony Eden mollò dopo il disastro di Suez, e nel ’63 quando si dimise Macmillan.

 

E allora fu la Regina a dover decidere. Non senza polemiche: nel primo caso, scelse appunto Harold Macmillan, deludendo il vice di Eden, Rab Butler, che parlò di “our beloved Monarch” in tono assai ironico. Dopo Macmillan, Elisabetta nominò Alec Douglas-Home, quattordicesimo conte di Home, l’ultimo primo ministro britannico membro della Camera dei Lord, dalla quale peraltro dovette subito dimettersi perché, secondo l’onnipotente Tradizione, le Loro Signorie non possono prendere la parola davanti ai Comuni. In entrambi i casi, Elisabetta non gradì, perché far scegliere lei significa che l’arbitro si mette a giocare, quindi diventa criticabile.

 

Poi, ovviamente, c’è il capitolo Thatcher. Che le due signore non si amassero, è certo. Che si odiassero come si è sempre detto, è forse esagerato. Elisabetta non ha opinioni politiche, o almeno non le dichiara, ma di certo preferisce i conservatori vecchio stile, quelli “compassionevoli”, come diceva Disraeli. Il darwinismo sociale della Thatcher non era fatto per lei, né quella Britannia rampante tutta finanza, self-made men e cattive maniere. Lo si vide, al solito, al weekend a Balmoral, una delle prove più temibili che il premier doveva affrontare, fra passeggiate sotto la pioggia, picnic con la carne semicruda cucinata da Filippo, noto grigliatore seriale, la Regina che chiudeva l’insalata avanzata nei tupperware e, di sera, gli insensati giochi di società davanti al camino.

 

La mitica puntata di The Crown, dove si vede la Thatcher arrivare con le sue valigie troppo nuove e poi arrancare sulle colline in tailleur e tacchi, è un po’ romanzata ma sostanzialmente veritiera. A Balmoral andò anche peggio con Cherie Blair, repubblicana arrabbiata: il personale le disfece i bagagli e lei si irritò perché un valletto aveva maneggiato le sue mutandine. Con la Thatcher si sfiorò la crisi costituzionale quando Reagan sbarcò a Grenada: la Regina tiene molto al suo ruolo di Capo del Commonwealth e in quel caso gli yankee avevano invaso un territorio di cui è Regina. La crisi diplomatica si verificò invece quando la Regina e la sua premier intervennero allo stesso evento indossando due tailleur di colore simile.

 

Da Downing Street partì per BP la proposta di coordinarsi. Risposta del Palazzo: “Non è necessario. La Regina non nota mai come sono vestite le altre donne”. Però, quando la Thatcher dovette mollare la preda e si dimise, la Regina la fece baronessa e le concesse pure la Giarrettiera. Non solo: è uno dei suoi due primi ministri di cui abbia partecipato al funerale. L’altro, ovviamente, fu Churchill, il primo non royal a ottenere quello di Stato dai tempi del duca di Wellington. Anzi, in quell’occasione Elisabetta, che conosce il protocollo così bene da sapere quando è il momento di ignorarlo (a differenza di quasi tutti i suoi colleghi, che lo violano perché l’ignorano), fece un gesto assolutamente straordinario: all’uscita da Saint Paul, cedette il passo ai familiari del defunto. 

 

Se con il successore della Thatcher, John Major, i rapporti di Elisabetta furono assai buoni, anche perché gestì bene i passaggi parlamentari dei divorzi dei figli, non si può dire lo stesso di Tony Blair, in fin dei conti per le ragioni uguali e contrarie di quelli con la Thatcher. “Troppo e troppo in fretta”, pare abbia sentenziato Elisabetta delle riforme di cui fu costellata la strada della “cool Britannia”. Per lei, conservatori o laburisti pari sono, ma in entrambi i casi li preferisce vecchio stile: meglio il Labour del New Labour, insomma. Sulla gestione della crisi post mortem di Diana, inutile tornare. Tutti hanno visto The Queen, un film impreciso su alcuni dettagli e fantasioso per altri, ma che centra il paradosso: Elisabetta, da sempre criticata per aver anteposto i suoi doveri di Sovrana a quelli di moglie e madre, in quella sciagurata occasione lo fu perché, per la prima volta, decise di essere più nonna che Regina, e di proteggere i due nipoti appena diventati orfani dalla curiosità cannibalesca di una pubblica opinione isterica.

 

E tuttavia, Regina costituzionale, alla fine fece quel che le chiedeva il suo primo ministro. Che non abbia gradito, però, è certo; che abbia dimenticato, nemmeno, se Blair ricevette la Giarrettiera “appena” quattordici anni dopo essere stato sfrattato da Downing street.
Secondo Walter Bagehot, il sommo costituzionalista vittoriano (The English Constitution, 1867), il Sovrano ha tre poteri: “Quello di essere consultato, quello di incoraggiare, quello di mettere in guardia”. Ne consegue che diventa decisiva la personalità di chi viene consultato, incoraggia e mette in guardia.

 

Bene: oggi, sulla terra nessun personaggio pubblico ha l’esperienza, l’uso e la conoscenza del mondo della Regina Elisabetta. È da settant’anni nella stanza dei bottoni, dopo esserci nata. Ogni primo ministro, anche quello o quella che verrà, fa bene a non dimenticarselo e ad ascoltare con attenzione quel che gli dice la nonna del mondo. E non si può che guardare con ammirazione questa quasi centenaria che, fedele al suo giuramento, fra pochi giorni nominerà un nuovo premier e ci lavorerà con l’attenzione rassegnata ma ostinata della maestra che ogni volta ricomincia da capo con le spiegazioni elementari.

 

Se poi questi ragazzotti vogliono fare di testa loro, non manca il modo per farlo sapere senza dirlo. Come successe all’apertura della prima sessione parlamentare dopo il referendum sulla Brexit, quando la Regina si presentò non con i consueti manti d’ermellino, ma indossando un normale tailleur. Doveva pronunciare il discorso della Corona, scritto al solito dal premier, l’insulsa Theresa May, nel quale si sarebbe annunciata l’uscita del Regno dall’Unione europea. Elisabetta, diligente, lesse quel che doveva leggere. Ma tutta vestita di blu bandiera europea e, sul cappellino, con una coroncina di fiori gialli che ricordavano molto le relative stelle. Chi voleva intendere, intese. E anche chi non voleva.