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Il nuovo report sul partygate e il “grande Gatsby” di Downing Street

Cristina Marconi

Il rapporto offre un’immagine di grande decadenza ma aggiunge poco alle 126 multe già comminate dalla Metropolitan Police. Il primo ministro intanto prova a schivare gli attacchi e rilancia con un maxi pacchetto di aiuti per le fasce deboli e il consueto invito a passare oltre

In una notte di metà aprile del 2021 l’ultimo ospite ha lasciato la residenza del primo ministro Boris Johnson oltre le quattro del mattino, poche ore prima del funerale del principe Filippo e poche settimane prima che il paese tornasse a una vita quasi normale dopo i mesi neri della pandemia. Un’immagine di grande decadenza, tra le tante contenute nel rapporto pubblicato ieri da Sue Gray, alta funzionaria incaricata di fare chiarezza nella storia imbarazzante ma ancora non del tutto letale delle feste di Downing Street, tra karaoke alcolici, bevute del venerdì sera, musica degli Abba, macchie di vino sulle pareti, quiz sul modello di quelli che si fanno nei pub, una rissa tra persone brille, vomitate e soprattutto intollerabili mancanze di rispetto agli addetti alla pulizia e alla sicurezza che cercavano, unici nei palazzi del potere, di far rispettare le rigide regole di quella stagione disperata. 

 

Come re Mitridate, Boris è ormai capace di sopravvivere a dosi altissime del veleno degli scandali, protetto com’è dall’essere da una parte abituato alle situazioni poco istituzionali e dall’altra ancora, nonostante tutto, la migliore scommessa politica del partito conservatore. Uno come lui in tempi come questi non lo butti giù con una spallata, ci vogliono delle picconate continue e cadenzate, come sa bene Dominic Cummings, che alla campagna anti Boris sta dedicando tutto lo slancio di una ex moglie accecata dalla rabbia. Su Twitter è stato, diciamo, sobrio: “Non pensa di aver fatto nulla di sbagliato, come ha ribadito a più riprese nel 2020”, ha evidenziato Cummings con malcelato sarcasmo, alzando immediatamente la posta con un curioso virgolettato attribuito a Boris: “Tutti farebbero meglio a ricordare che sono il fottuto Führer (sic) da queste parti”.

 

Una dichiarazione che, se confermata, andrebbe a scheggiare ulteriormente  un’immagine ormai compromessa ma ancora capace di reggere. Nelle trentasette pagine di report, giunte dopo sette mesi e in un momento in cui il picco dell’indignazione popolare per il partygate sembra ormai superata, Gray attribuisce la “responsabilità” di una cultura distorta al premier e al capo del Civil Service – pure lui saldamente al suo posto – per delle violazioni che riguardano sedici feste in un arco di 600 giorni, quasi due anni durante i quali i cittadini britannici hanno cancellato visite e compleanni, rimandato operazioni e cure, sono rimasti disciplinatamente isolati per salvarsi dal Covid e per non pesare sul servizio sanitario nazionale. Un rapporto duro, che però poco aggiunge alle 126 multe già comminate la settimana scorsa dalla Metropolitan Police – una sola a Boris, altre alla moglie Carrie, al cancelliere Rishi Sunak e ad altre 80 persone – e all’imbarazzo di vedere le foto del premier che brinda durante uno di questi eventi, il drink di addio del suo direttore della comunicazione, Lee Cain, nel novembre 2020, lo stesso giorno della drammatica partenza di Cummings.

 

Per quella stessa festa altre persone hanno ricevuto delle multe. Boris si è scusato, ha detto di non sapere quello che succedeva dopo le sue brevi apparizioni ma si è anche in parte difeso: partecipare a questo tipo di eventi, ha spiegato, fa parte del suo lavoro, “è uno dei ruoli essenziali della leadership”, sebbene abbia “imparato una lezione”. Keir Starmer ha fatto presente che “la porta del 10 di Downing Street è uno dei grandi simboli della democrazia britannica”, basata “sui principi di onestà e integrità” e che Boris Johnson, per aver fallito nel difenderli, se ne dovrebbe proprio andare. Il quale invece ha rilanciato con un maxi pacchetto di aiuti per le fasce deboli e il consueto invito a passare oltre, a voltare pagina.
 

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