Schröder non va difeso (e dopo i massacri di Bucha sarebbe infame farlo), ma capito

Giuliano Ferrara

Più che di un processo all'ex cancelliere, la Germania dovrebbe fare un riesame profondo della sua strategia passata e reimpostarne una sicura, solida e di contrasto al pericolo che incombe alle sue porte

Le cose dette da Gerhard Schröder al New York Times suonano scandalose, sopra tutto in Germania, e avviano una crisi comprensibile della coscienza tedesca e della politica tedesca. Ma bisogna stare attenti: negare Bucha o la responsabilità di Putin nei massacri è più che odioso, è un errore storico e un’ingenuità ideologica e politica, un atto di faziosità imperdonabile, che dipende da un’amicizia personale stretta negli anni con il capo russo, dalla condivisione familiare, dall’aspirazione a influenzarne le scelte, immagino. Censurata questa vergogna, perché il pudore e l’amicizia dovrebbero esitare per lo meno di fronte alla linea rossa di una guerra sanguinosa e immotivata, c’è il resto.

 

Il cancelliere Schröder, fatti personali e di vita a parte (ne ho parlato qualche tempo fa in un altro articolo), è stato un riformatore geniale e coraggioso del suo paese, ha aperto la via alla Merkel e a anni di stabilità e propulsione economica e politica della Germania in Europa, e in qualche modo ha reso possibile anche l’avvento come successore della Kanzlerin di un socialdemocratico, Olaf Scholz, l’uomo della svolta occidentalista, del riarmo, della chiusura a Putin, che combatte contro i fantasmi della geografia, della storia, del passato che non passa, specie nella sua forma gassosa, e che ha promosso e avallato l’autocritica di Frank-Walter Steinmeier, il presidente della Repubblica di Germania invischiato nelle politiche di vicinanza con Putin insieme a un altro socialdemocratico eminente, Sigmar Gabriel. Alla luce di quanto accade, questi uomini di stato hanno rivisto le loro posizioni e si provano, senza successo di pubblico in Ucraina, comprensibilmente, a rimediare al mal fatto.

 

Schröder da tempo non è più un uomo di stato, è un uomo d’affari che fa la spola  tra Hannover e San Pietroburgo
Tre settimane dopo aver cessato la carica, il suo atto inaudito: accettò da Putin l’offerta cinica di diventare un businessman russo nel settore dell’energia, che aveva curato da vicino e politicamente influenzato come capo del governo tedesco per molti anni. Non era un banale conflitto di interessi, era molto di più, un tradimento della responsabilità e dignità istituzionale. “Per fare soldi”, ammise con un certo cinico candore in dichiarazioni dell’epoca. Ma un tradimento etico non è un delitto, primo, e oltre tutto avvenne nel segno della continuità politica tedesca, accettata e praticata da tutti, industrie, finanza, sindacati, partiti, establishment di ogni parte e milizia. Qui è il punto. E su questo punto, che va oltre le infanzie povere dei due amiconi, che va oltre le loro ricchezze attuali, che va oltre le adozioni dei bambini russi nella famiglia Schröder, che va oltre lo spirito amicale della loro collaborazione, Schröder va non dico difeso, e non ne ha bisogno, e con il senno di poi sarebbe infame difenderlo, ma capito.

 

I tedeschi hanno praticato per intere ere politiche, a partire da Willy Brandt, resistente antinazista divenuto cancelliere, l’uomo che si inginocchiò davanti al monumento dei caduti del Ghetto di Varsavia, l’uomo che perse la carica dopo che fu accertata l’infiltrazione nel suo gabinetto privato di un agente del Kgb, Günter Guillaume, il loro Sonderweg, il loro percorso speciale e originale in Europa e verso la Russia, già Unione Sovietica. Il Sonderweg è tante cose insieme, e certo anche una conseguenza della Seconda guerra mondiale. Avevano un problema unico: la riunificazione nazionale. Erano e si sentivano per ragioni storiche e geografiche Mitteleuropa, Europa centrale, pur essendo stati liberati in un quadro costituzionale grandiosamente occidentale, con le classi dirigenti cattoliche conservatrici emerse dopo la disfatta di Hitler, i benedetti Adenauer e Erhard. Produssero la Ostpolitik, che fu un elemento della dissoluzione dell’impero sovietico, per quanto procedura diplomatica controversa e moralmente costosa, insieme al containment degli angloamericani, da Truman a Nixon,  e poi alla grande controffensiva di Reagan e Thatcher e Giovanni Paolo II, partita tra il 1978 (elezione papale del polacco fatale) e il 1979 (avvento della Thatcher) e il 1980 (vittoria di Reagan). Schröder fu contrario alle guerre mediorientali di Bush Jr. dopo l’11 settembre, con argomenti meno radicali ma convergenti con quelli del francese Jacques Chirac e in sintonia con i circoli della politica realista e avversa ai neoconservatori dell’entourage di Bush Sr.

 

La Germania è stata in tutti questi anni un pilastro della Nato, ma in un contesto ideologico che sfiorava il Nationalneutralismus, l’idea di essere cauzione di pace al di là della stessa funzione di quell’alleanza difensiva, di essere a metà strada. E il modo di percorrere quella strada, che con il senno di poi, di cui son piene le fosse, come si sa, risulta fattore ingenuo di finta prosperità, è sempre stato il Wandel durch Handeln: il mondo cambia e migliora la sua prospettiva di pace europea e mondiale se progredisce il commercio internazionale, che è sì dipendenza energetica, come si vede oggi, ma anche interdipendenza, visto che noi senza gas non possiamo produrre e crescere ma la Russia senza il prezzo pagato del gas diventerebbe una provincia povera, altro che un impero. La Merkel ha fatto di tutto per trasformare questa eredità all’altezza dei progressi dell’Unione europea, e ha giocato, come tutta la Germania, altro che il solo Schröder, la carta del dialogo con Putin in nome della relazione tra cambiamento e commercio. La storia giudicherà, ma l’ex cancelliere non ha torto quando dice al New York Times, a parte la sua irresponsabile e losca cautela nell’individuare oggi le colpe di una guerra mostruosa, che la sua politica è stata la politica del suo paese, finché lo è stata, e solo di fronte a una rottura su questo piano, il rubinetto aperto del gas che consente alla Germania di essere la Germania, in ogni senso non solo economico-produttivo, rassegnerebbe le dimissioni dallo status di bisnizzaro russo e si ritirerebbe a Hannover. Più che di un processo a Schröder, più che di un pentimento morale, la Germania dovrebbe fare un riesame profondo della sua strategia passata e reimpostare di fronte ai fatti nuovi, e in certa misura difficili allora da prevedere, una politica sicura, solida, di contrasto al pericolo che incombe anche alle sue porte. Questo è il compito di Scholz, che non deve farsi distrarre dall’eticizzazione della storia e dagli abusi di memoria, giudicando con le lenti di oggi quel che avvenne nel passato, mentre non deve esitare sui doveri del presente e del futuro.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.