AP Photo/Francois Mori

La paura fa Macron

Paola Peduzzi

Nel suo unico comizio prima del voto il presidente francese chiede mobilitazione e unità contro l’estremismo: crea un po’ di calore, ma chi si aspettava di vedergli il cuore è rimasto deluso . Marine Le Pen recupera consensi anche perché le è riuscita l’operazione “sorriso e gatti”

Noi ci occupiamo della temperatura, dice un ragazzo con il sorriso indicando la maglietta che ha addosso: c’è scritto “avec vous”, con voi, lo slogan della campagna per la rielezione di Emmanuel Macron. La temperatura è quella del presidente-candidato di Francia, che entra nell’ultima settimana prima del voto delle presidenziali – il 10 aprile, il secondo turno sarà il 24 – con il calore di una lucertola, e questo freddo si sente ovunque. All’Arena della Défense, sabato pomeriggio, Macron ha cercato di regolare il termostato, di scaldare i suoi elettori e di mobilitarli: l’impossibile può sempre accadere, Marine Le Pen può diventare presidente della République, i giochi non sono fatti.

In una campagna elettorale che non ha avuto uno slancio in avanti e che ha l’aria di un gigantesco déjà vu, il 2017 continua a essere dappertutto: quell’esperienza è irripetibile dopo che sei stato presidente cinque anni, ma il ricordo aleggia come un paradigma, come la misura del successo  di questa tornata – sapremo fare altrettanto bene? Macron stesso lo dice, a metà del suo lungo discorso dal palco esagonale (quanti simboli in un pomeriggio soltanto) dell’Arena: non siamo nel 2017, ammette quasi rammaricato, ma poi urla: “Ho molta più energia rispetto ad allora, e anche voi!”. Solo che non è vero. E’ il problema delle rielezioni: c’è una letteratura in proposito che riguarda in particolare il mondo anglosassone su quanto sia complicato costruire il messaggio del secondo giro se al primo sei stato l’outsider, il rivoluzionario, se insomma hai già giocato la carta del cambiamento. Forse in questa primavera del 2022 in Francia le difficoltà sono maggiori, perché la campagna elettorale è stata stravolta dalla guerra all’Europa e in Europa lanciata dalla Russia, il presidente si è dovuto chiudere nel palazzo a fare diplomazia e strategia, mentre là fuori s’alzano le bollette e   l’incertezza ed è quanto mai  facile per gli sfidanti intercettare l’ennesima insofferenza nei confronti di Macron. 

 

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Il presidente-candidato ha la sua forza, che è trovarsi già nel posto giusto, ma ha anche il problema di dover rinnovare il contratto con i cittadini e quindi inevitabilmente di dover offrire qualcosa di nuovo: è una cosa strutturale. Però nessuno riesce a levare il dubbio che, guerra o non guerra, Macron non avesse una proposta innovativa per il secondo mandato e che girasse un pochino attorno all’idea dell’inevitabilità – chi altro vuoi votare, Eric Zemmour, l’uomo della “Z” prima che ci pensasse Vladimir Putin a renderla the new svastica? O Marine Le Pen, che sembrerà pur meglio di Zemmour, ma sappiamo benissimo chi è e qual è la sua proposta, non è certo una novizia? Non ci sono alternative praticabili: si rivoterà Macron. E’ così che si crea il candidato inevitabile, ed è anche così che lo si distrugge.

L’inevitabilità come strategia non è quasi mai una buona idea,  ancor meno ora che gli elettori mostrano con insistenza l’insofferenza nei confronti dell’esito prestabilito, del “candidato che vogliono tutti”, dove per tutti si intendono i poteri forti: siamo nella stagione in cui ognuno vuole e può far sentire la propria voce e la propria opinione, perché si dovrebbe esercitare il diritto più importante che c’è, il diritto di voto, facendo quello che tutti si aspettano? Il caos esercita un fascino potente, c’è voglia di mandare un segnale, e Macron è l’obiettivo perfetto, perché ha sì scardinato il sistema politico francese, ha sì lavorato alla costruzione di un partito che oggi è più solido della sinistra e della destra tradizionali, eppure è rimasto un presidente tecnico, efficiente ma distante, un ibrido che assomiglia più a un robot che a un essere umano cui volere bene.

Il presidente francese si era già ritrovato in questa situazione.

L'illustrazione di Makkox

  

I suoi sono stati cinque anni di continua tensione, iniziati con la protesta dei gilet gialli e proseguiti con gli scioperi più durevoli degli ultimi trent’anni, un professore decapitato per strada da un terrorista islamico, la pandemia, ora Putin che invade l’Ucraina. Macron aveva già conosciuto l’affanno e aveva trovato la formula dei débats per riavvicinarsi agli elettori, con le maniche arrotolate, molta voglia di ascoltare e un pizzico di umanità maggiore del solito.

L’appuntamento alla Défense era pensato come un enorme ed elettorale débat, ma è stato tutt’altro.

L’Arena è il palazzetto al coperto più grande d’Europa, contiene 40 mila persone e ospita solitamente concerti ed eventi sportivi. Nel quarto episodio della web-serie “Le candidat”, il dietro le quinte della campagna elettorale realizzato (con successo mediocre) dai macroniani, Macron va a fare un sopralluogo all’Arena: è vuota, è enorme, lui dice che s’immagina le luci e il tifo tipici degli eventi sportivi, guarda in alto gli spalti vuoti per cercare ispirazione, come accade nei film sui grandi atleti, soli e piccini in stadi vuoti e poi fenomeni planetari. Sabato l’Arena era piena ma non strabordava, la tifoseria aveva preparato canti e cartelloni, le bandiere francesi e le bandiere europee si alternavano con regolarità, i cartelli “avec vous” erano ovunque assieme alle magliette: c’era caldo ma non caldissimo.

Macron è arrivato come una star – molti dicono “come un boxeur”, perché il presidente fa spesso paragoni con la boxe: gli piacciono gli scontri frontali in cui il vincitore è chiaro – stringendo mani, sorridendo, salutando, centinaia di occhiolini come prevede il manuale: guarda negli occhi l’elettore che deve sentirsi unico e riconosciuto, vuole poter dire che il presidente parla proprio a lui. E quindi Macron ha finto di riconoscere mezza Arena, mentre saliva sul palco e una volta lì ne ha salutata altra mezza – pareva di essere un po’ in America, un po’ a una partita di pallacanestro, un po’ alla festa di una grande azienda, ma in ogni caso lontani anni luce da quel che sappiamo e capiamo della cosiddetta Francia profonda.

E qui sta tutto, ancora una volta, come nel 2017, come in molte altre contese elettorali in occidente, quel che conta di questa corsa presidenziale.

AP Photo/Francois Mori 

    

Marine Le Pen sta recuperando nei sondaggi, è salda al secondo posto per il primo turno e ha un distacco non molto grande da Macron all’eventuale ballottaggio. Cinque anni fa, il presidente aveva detto che avrebbe fatto in modo che gli elettori tentati dall’offerta lepenista non avessero più avuto alcuna ragione per votarla. Oggi, facendo le somme dell’intenzione di voto a destra, si vede che l’estremismo è tutt’altro che affossato. C’è stata una trasformazione culturale e sociale nei confronti della destra, in questi cinque anni, che i macroniani non hanno intercettato o che hanno pensato di saper governare, ancor più in queste settimane, con lo scoppio di una guerra che traccia un confine netto nelle alleanze geopolitiche e in quelle ideologiche. Alcune persone dentro al partito del presidente, La République en marche (Lrem), dicono che il putinismo della Le Pen, che non è soltanto un’alleanza ideale o di facciata, ma è finanziaria e quindi concretissima, non si è rivelato un fattore “schiacciasassi” come molti si aspettavano: dopo la prima fase di riposizionamento ipocrita, con i lepenisti che ripulivano slogan e album di famiglia, “la Le Pen è stata perdonata”.

Christophe Castaner, capogruppo di Lrem all’Assemblea nazionale e da sempre grande interprete del macronismo cui è approdato dal Partito socialista, dice avviandosi al suo posto sotto al palco dell’Arena e concedendosi a selfie con chiunque: “Siamo di fronte a un’amnesia nazionale, e abbiamo tutti contribuito a crearla”. L’amnesia è aver dimenticato che cos’è Marine Le Pen e che cos’è l’estremismo di destra, in Francia e in Europa. Il perdono sull’alleanza tra il Rassemblement national e il Cremlino è l’ultimo esempio di come è cambiato per i francesi il rapporto con l’ex Front national: non è più così sconvolgente e socialmente inaccettabile dire che si vota Marine Le Pen. In buona parte del paese, nella famosa Francia profonda (che ha smesso di essere fiera di questa definizione perché vive soltanto, soprattutto nell’est del paese, la profondità svilente della deindustrializzazione), il tabù era già stato in parte superato, ma ora è accaduto anche altrove.  La Le Pen lavora a questa “de-diabolizzazione”, come la chiamano i suoi, da molti anni: è il motivo per cui ha litigato con suo padre, Jean-Marie Le Pen, il primo che portò lo spettro nazionalista e xenofobo al secondo turno presidenziale spazzando via il candidato di sinistra nel 2002; è il motivo per cui ha preso le distanze dai confini più esterni e radicali del suo elettorato. Ma finora non ce l’aveva fatta.

Fa appena un po’ sorridere il fatto che buona parte di questo successo sia stato garantito da Eric Zemmour, giornalista, saggista, intellettuale candidato con il partito Reconquête! all’Eliseo per l’estrema destra ancora più a destra di quella di Marine Le Pen. Come nei film, il più cattivo attira tutta l’attenzione, ancor più se sei come Zemmour, un sovranista articolato che sa parlare alla Francia profonda ma anche ai salotti di città. Il movimento dell’alt-right in America ha creato un format in questo senso, invertendo il processo della partecipazione al dibattito pubblico: non si cerca di rendere palatabile un’idea estrema, ma si procede all’inverso, rendendo accettabile, quindi al fondo persino desiderabile, quel che prima era indicibile. Se inventi un sito che francesizza i nomi, come ha fatto la campagna di Zemmour, non vieni messo al confino perché stai escludendo le identità culturali altrui, ma finisci per far divertire i tuoi sostenitori a contare quante migliaia di Georges in più ci sarebbero in Francia se la si smettesse con l’integrazione rispettosa del diverso. E’ quello che intende Castaner quando dice che tutti hanno contribuito all’amnesia culturale su quel che significa avere dei leader in posti di potere che propongono idee e soluzioni di estrema destra. 

Grazie a Zemmour, ora sono ammissibili in Francia molti concetti estremi, che sono considerati parte del dibattito, proprio come è accaduto con il trumpismo in America. Quel che forse Zemmour non aveva calcolato è che i benefici dello sdoganamento culturale li avrebbe goduti qualcun altro, in particolare la sua principale rivale dell’area, Marine Le Pen. La quale ha abbandonato la retorica della rabbia – quella è rimasta a Zemmour, è ai suoi comizi che i fan gridano “Macron assassino” e lui li lascia cantare prima di far finta di prenderne le distanze – e ha preso quella “dei gattini”, dice un consigliere macroniano: rassicurare, abbracciare, parlare soprattutto della fatica, da superare insieme, grazie a lei. La Le Pen si fa intervistare dai magazine femminili, dice di non aver per forza bisogno di un uomo per stare bene (ha due ex mariti e un ex fidanzato che era anche il suo principale consigliere), dice che trovare un uomo che sappia amare è davvero difficile, ricorda le gravidanze complicate (tre figli in un anno, due sono gemelli), vive appena fuori Parigi condividendo casa con una sua amica d’infanzia, se andasse all’Eliseo si porterebbe dietro i suoi sette gatti e vorrebbe sbarazzarsi degli alveari messi dai Macron in giardino.

Oggi la Fondazione Jean-Jaurès, centro studi storicamente legato al Partito socialista (oggi un partito inesistente), pubblica uno studio dal titolo “Contrastare la strategia della riunificazione di Marine Le Pen”. Uno degli autori è Raphaël Llorca, giovane dottorando in filosofia del linguaggio che ha già pubblicato due libri, uno sul brand Macron, l’altro sulle maschere dell’estremismo di destra che hanno contribuito a costruire l’amnesia collettiva su questo pensiero contiguo al fascismo. Nella ricerca della Fondazione, Llorca analizza il passaggio “dalla politica dello choc a quella del soft” che ha cambiato non soltanto le parole della Le Pen, che sono ora molto meno aspre e conflittuali, ma anche l’estetica sua e del partito: non c’è più nulla che richiami il nero d’origine, Marine si veste color pastello e sorride, sorride sempre.

 

“Penso che la brutalità inutile e gratuita di Zemmour allontani la gente – ha detto la leader del Rn qualche tempo fa – I francesi oggi hanno voglia di tranquillità, di serenità, di non sentirsi sotto attacco da qualsiasi cosa in ogni momento. Non voglio aggiungere rabbia alla gran rabbia che già c’è nel mondo”. Llorca dice che la Le Pen ha scelto di condurre “una campagna-terapia” e spiega che il senso di cura è molto sentito in Francia: “La serie tv ‘En Thérapie’ è rivelatrice. In sei settimane di trasmissione, è diventata il programma più visto del canale Arte, con più di 35 milioni di visualizzazioni. La serie è andata in onda durante la pandemia e parlava di un altro evento traumatico: gli attentati terroristici”. La grande trasformazione di Marine Le Pen è questa: ha cambiato la natura del populismo, invece che strumentalizzare le emozioni negative, come tutti compresa lei hanno sempre fatto, si è messa ad assistere e rassicurare gli elettori nelle loro angosce – una terapista. A Reims, a febbraio, in uno dei suoi comizi più rilevanti, la leader del Rn ha finito il discorso dicendo: “Ora vorrei prendermi qualche minuto per parlarvi di me”. E ha raccontato la sua infanzia segnata dall’attacco bombarolo contro suo padre nella casa in cui abitavano, ha parlato dei suoi figli, dei sacrifici fatti e dei sensi di colpa, degli errori commessi: poco lagnosa, e umanissima. Secondo la trasmissione televisiva Quotidien, presentata da Yann Barthès su Tmc,  che a giudicare dal numero di volte in cui viene citata nelle chiacchiere parigine è il programma da seguire, c’è stata una “virata da terapia psicanalitica” nella campagna della Le Pen, e i gatti hanno avuto un ruolo molto importante. Chi può sentirsi impaurito da una signora che ama i gatti e sorride sempre?

E’ ora più chiaro perché i macroniani sono tanto preoccupati. L’ex premier Edouard Philippe, anche lui molto generoso nel concedersi al popolo dell’Arena, è stato il primo a dire la settimana scorsa in un’intervista: “Certo che Marine Le Pen può vincere”. In mezzo a fan e giornalisti, senza più la sua barba bicolore, mezza nera e mezza bianca, che lo aveva caratterizzato fino a qualche tempo fa (ha vinto il bianco), Philippe ripete: “I giochi non sono fatti, bisogna mobilitarsi ora e fino al secondo turno con grande enfasi”. Manuel Valls, ex premier anche lui che aveva tentato una nuova carriera in Catalogna senza riuscirci ed è rientrato nei ranghi macroniani, aggiunge: “Non basta dire che la Le Pen può vincere, bisogna combattere”. In un articolo scritto per il Journal du Dimanche, Valls insiste: “E’ mezzanotte meno uno”, non c’è tempo per i brutti scherzi. Lo stesso Macron, girando da un podio all’altro del palco esagonale di un bianco freddissimo, ha dedicato la seconda parte del suo discorso alla necessità di una grande mobilitazione: “Non credete ai sondaggi o ai commentatori che dicono che è  impossibile o impensabile (che la Le Pen vinca, ndr), che l’elezione è già decisa, che andrà tutto bene. Guardate: la Brexit così come altre elezioni sembravano improbabili e invece sono accadute. Per questo ve lo ripeto con grande forza oggi: nulla è impossibile. Ma non voglio che vincano l’arroganza o il disfattismo: voglio una mobilitazione generale”. Gli applausi sono arrivati, un po’ più caldi rispetto a quelli ormai stanchi che avevano scandito sia l’elenco fatto da Macron sui risultati ottenuti in cinque anni sia le promesse per il futuro. Una volta che il pubblico si è sentito una parte attiva, la temperatura si è finalmente un po’ alzata. 

 

Il presidente francese ha recuperato l’Europa come colonna portante del suo progetto, cosa che finora non aveva fatto: pesa, in questo suo nuovo assetto elettorale, il fatto di non aver conquistato lo scettro del re d’Europa che pensava di poter ereditare quasi senza far nulla (è sempre una questione di inevitabilità) dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, uscita di scena. Non è andata così, vuoi perché dalla pandemia l’Unione europea è diventata una forza molto diversa rispetto a quella che il Macron del 2017 voleva riformare e resuscitare, vuoi perché l’alleanza con l’America di Joe Biden non è stata  rose e fiori come sembrava (la commessa di sottomarini australiani perduta è una ferita che nell’establishment macroniano viene citata spesso). Così Macron, pur avendo la presidenza di turno del Consiglio europeo, non aveva parlato finora molto d’Europa. All’Arena sì, ha recuperato “l’ideale europeo” come aspirazione francese oltre che continentale, così come ha cercato di disegnare una linea di continuità tra tutte le tradizioni politiche del paese, dalla socialdemocrazia al gollismo, lasciando fuori gli estremi: la destra della Le Pen e di Zemmour, ma anche la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, l’altra incognita di questo primo turno (è però una sorpresa che preoccupa di meno al secondo turno: Mélenchon è più facilmente battibile rispetto alla Le Pen). Rievocando da lontano gli slogan mitterrandiani della “Francia unita” e della “forza tranquilla”, Macron ha detto: “Dico a chi oggi, dalla socialdemocrazia al gollismo all’ecologismo,  non si è ancora unito a noi, di farlo. Perché fin dall’inizio noi non abbiamo che un solo grande partito: il nostro paese”. La formula “né di destra né di sinistra” del 2017 si è evoluta: il presidente chiede un “superamento politico”, cioè la capacità di trovare una sintesi tra culture diverse  che però condividono i valori di base.  Contro gli estremismi ma anche contro la banalizzazione dell’estremismo: “Il pericolo dell’estremismo – ha detto Macron – è oggi più grande rispetto a qualche mese fa: l’odio, le verità alternative sono state banalizzate. Nel dibattito pubblico ci siamo ormai abituati alla sfilata televisiva di autori antisemiti, di autori razzisti”. E ancora: “Ci siamo abituati a lasciare che certi candidati si definiscano patrioti quando si fanno finanziare il proprio partito e il proprio progetto da agenti stranieri”. 

Macron si pone di nuovo come l’argine al nazionalismo oggi ancora più spaventoso se proviamo a pensare a che cosa vorrebbe dire per tutti noi una presidenza francese di estrema destra e vicina a Putin. Cerca di alternare la sua visione del mondo con proposte per migliorare la quotidianità dei francesi, parla dell’aiuto alle famiglie, dice che chiedere di lavorare di più e per più tempo (aumenta l’età pensionistica a 65 anni) non è una brutalità, “non c’è stato sociale senza stato produttivo”, promette sostegni e vicinanza per rilanciare il paese e parla tantissimo di potere d’acquisto, che è una delle questioni su cui i francesi sono più sensibili e più volubili nei confronti dell’operato presidenziale. L’appello alla mobilitazione è arrivato, così come è arrivata la (ri)proposta unitaria che già dal 2017 a oggi è fallita (la ricomposizione dopo tanta polarizzazione è complessa in ogni paese: basta vedere l’America di Joe Biden). Manca ancora, nella musica dal vivo e nei fuochi d’artificio, nelle luci che si alzano e si abbassano con sapienza mentre partono i cori e gli applausi ritmati, l’umanità di Macron che si era intravvista nella breve stagione dei débats, quella che gli permetterebbe di lavare un po’ via la sua immagine di tecnico algido, di presidente dei ricchi, di un leader che vive senza contezza dei sentimenti dei suoi cittadini. Se davvero è una cura che cercano i francesi, una terapia di rassicurazione, allora il giovane presidente che aveva fatto della “protezione” il suo pilastro ha lasciato terreno alla nuova offerta della Le Pen. Per questo molti volevano vedere alla Défense Arena il cuore del presidente, per potersi fidare davvero di lui. Macron è sì riuscito ad alzare un pochino la temperatura, a dare un po’ di calore, ma il cuore no, s’è affacciato soltanto quando ha ringraziato sua moglie Brigitte, poi lo ha rimesso via, e non s’è visto più.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi